terzo capitolo sul razzismo di George L. Mosse

Avevo interrotto, a causa di preponderanti forze nemiche, ah no scusate questa è un’altra vicenda, dicevo di soverchianti impegni professionali, la schedatura del bellissimo volume di George L. Mosse dedicato al razzismo.

Questa schedatura proseguirà a singhiozzo sempre a causa dei numerosi impegni.

Un’opera che non può mancare in nessuna biblioteca o scaffale di casa perchè unisce, come sempre in questo grandissimo storico, il rigore dello studioso con una grande abilità comunicativa che rende piacevolissima la lettura.

Un tema, peraltro, molto di attualità e spesso e volentieri tirato per la giacca, come si usa dire, da più parti politiche, normalmente a sproposito.

Averne un quadro storico, ben delineato, diventa tanto più urgente se si pensa alle accuse di populismo che tanta sinistra e non solo rivolge a movimenti come la Lega in Italia, il Front National in Francia (con i demenziali timori di guerra civile paventati dal primo ministro socialista Manuel Valls in caso di vittoria elettorale di questo partito poi non realizzatasi) e di cui il movimento autonomista catalano ma, non molto diversamente, gli esiti elettorali di Grecia e Spagna recenti sono una diversa sfumatura.

Demonizzare non è giudicare, ma di questo in altra occasione.

Vengo ora al riassunto del terzo capitolo intitolato “Nazione, lingua e storia”.

La coscienza storica che si risvegliò del XVIII secolo fu fondamentale per lo sviluppo dell’idea razziale; le leggi di sviluppo organico che formulò furono applicate anche all’antropologia e alla linguistica, la vera distinzione tra i popoli iniziava ora ad essere il suo sviluppo storico, ma non bastava  considerare che ogni popolo ha una sua storia

Johann Gottfried Herder
Johann Gottfried Herder

peculiare poiché ci fu chi, come Johann Gottfried Herder, pensando che la storia non fosse affare umano ma disegno divino, contribuì alla trasformazione della storia in mito nazionale.

Di grande importanza anche  il pietismo con la sua sottolineatura sul rapporto interiore con Cristo e con la vita come manifestazione esteriore della rinascita interiore, da esprimere anche nella vita comunitaria.

L’idea pietistica induceva alla pietà individuale ma condivisa con altri e ad un’unione sempre più perfetta tra Dio e gli uomini; nella continua tensione verso l’unità interiore, che ha sempre anche valenza esteriore, si inserisce il discorso della patria; questa, specialmente in Germania, era considerata il prodotto della tensione intima dell’uomo verso l’unità secondo il disegno divino: la storia adempie al disegno divino ed il modo di adempiere è la patria, meglio ancora se intesa pietisticamente come il luogo dell’amicizia e dell’entusiasmo.

Il ruolo di Herder fu fondamentale per i popoli che aspiravano all’unità, con le sue teorie dell’immutabile spirito di un popolo, affinato dalla storia; egli paragonava la storia ad un albero: Dio e creature erano raffigurabili come radici e albero; il Volksgeist rappresenta il succo dell’albero che deve essere conservato e tramandato e si sostanzia nelle mitologie, nei canti e nel folklore che risalgono direttamente alle origini.

Egli non si opponeva allo sviluppo della storia che, in quanto voluta da Dio, è ineluttabile, ma lo faceva con una certa ambiguità, il suo Volksgeist non era razzista, poiché ogni popolo ne possedeva uno, ma la sue affermazioni furono recuperate a fini nazionalistici, nonostante la sua dichiarata opposizione alla classificazione razziale.

Lo spirito del popolo si manifestava bene nella lingua, espressione della spontaneità del Volksgeist, su cui si fondavano anche la cultura e la letteratura nazionali.

Herder era un cosmopolita poiché riteneva che nessun popolo dovesse prevalere sugli altri e da buon illuminista cristiano era ottimista e credeva nella pace universale, tuttavia il suo spirito nazionale fornì al nazionalismo un valido aiuto perché, di fatto, il Volksgeist creava fossati tra i vari popoli, isolandoli nel proprio spirito interiore.

All’inizio questo nazionalismo fu tollerante ma ben presto la lingua fu utilizzata per  ricerche sulle origini razziali e la classificazione razziale avrebbe preso forza.

Herder attribuì grande importanza alle lingua considerata espressione di un passato comune: questa impostazione fu seguita da una generazione di filologi tra la fine del XVIII all’inizio del XIX secolo che, però, indagò l’origine delle lingue cercando di scoprire le radici della razza.

Essi conclusero che il sanscrito fosse la base di tutte le lingue occidentali e una lingua di importazione dall’Asia grazie alla migrazione dei popoli ariani: è qui che compare il termine, che diverrà tristemente famoso, di “ariano”.

Questa origine linguistica fu collegata con il culto romantico dell’India, allora molto in voga, esaltata per le sue religioni misteriche e per la grandiosità e durevolezza dei suoi monumenti.

Si credeva che l’Egitto fosse stato una colonia dell’India e, nel XVIII secolo, le piramidi erano diventate molto di moda sia come motivo ornamentale  sia anche come tombe, sia ancora per dare dimensioni maggiori alle strutture architettoniche classiche e greche.

Vi è sicuramente un nesso tra il culto per tutto ciò che era egiziano, e quindi anche indiano, e le presunte origini ariane della lingua perché quei popoli, che avevano creato quella lingua ed erano emigrati in Europa, partecipavano di quella durevolezza e grandiosità che per i romantici erano tipiche del vicino oriente e dell’India (ci fu ad esempio, chi pensò che Ulisse provenisse, giustappunto, dall’India).

Friedrich Schlegel
Friedrich Schlegel

Fu Freidrich Schlegel, nel 1808, a proporre la teoria sulle origini ariane fondata sulla linguistica: egli sosteneva che tedesco, greco, latino, inglese avessero radici comuni nel sanscrito, mentre escludeva lo slavo e sosteneva queste affinità in base al “carattere interiore” delle lettere, con un criterio, insomma, privo di ogni scientificità.

La comunità sarebbe, di conseguenza, caratterizzata dalla lingua: i tedeschi, gli antichi e gli indiani formerebbero una autentica comunità organica, gli altri popoli no; secondo Schlegel gli indiani si sarebbero trasferiti poi nel meraviglioso Nord europeo.

Gli studi scientifici vennero utilizzati per sostenere la superiorità delle origini indiane: Christian Lassen, professore a Bonn (ove era succeduto al fratello di Schlegel) riscosse grandissimo successo tra i razzisti degli anni successivi che scelsero tra le sue opere tutti i passi utili a dimostrare che chi discendeva

Christian Lassen
Christian Lassen

dall’India possedesse un genio più alto e perfetto e fosse il solo a godere della vera armonia spirituale.

Si sostenne che esistessero popoli privi di questo equilibrio e in particolare i semiti, che includevano ebrei ed arabi, che, ad esempio, erano privi di poemi epici in cui l’ego del poeta svanisse di fronte agli interessi della comunità: la letteratura veniva utilizzata per sostenere un atteggiamento soggettivo che stabiliva una distinzione tra le varie razze.

Se Lassen non espresse giudizi razziali ben presto ci fu chi contrappose il nobile popolo indo-germanico agli ignobili semiti, l’ammirazione per l’India era diventata un mezzo di identificazione razziale e la linguistica uno strumento fondamentale per sostenere questo giudizio.

La lingua simboleggiava la comunione nel tempo di un popolo, di conseguenza agli ariani, che avevano dato la loro lingua alle altre nazioni superiori europee, furono attribuiti tutti gli ideali positivi tipici, appunto, della mentalità europea quali l’onore, la nobiltà, il coraggio e la bellezza; si sosteneva che fossero un popolo rurale, una virile razza contadina.

L’idea di scoprire le origini ariane attraverso la lingua non fu solo tedesca; in Francia ci fu un giornale cattolico che scrisse, nel 1831, della “rivelazione naturale” proveniente dall’India; Adolphe Pictet, che pubblicò in Francia tra il 1859 ed il 1863 sosteneva che la razza ariana avesse abitato un tempo l’India per poi emigrare in quasi tutta l’Europa e in parte dell’Asia; egli descriveva la vita degli antenati ariani come una sorta di paradiso terrestre: contadini giovani vigorosi, con libere istituzioni politiche e salda vita familiare.

Adolphe Pictet
Adolphe Pictet

Secondo Pictet la razza ariana era destinata in un qualche futuro a governare il globo: ovviamente il tipo di vita descritto da Pictet era in contrasto con la modernità in cui si trovavano a vivere gli ariani suoi contemporanei.

Gli studiosi tedeschi e francesi collaborarono nella fondazione del mito ariano; a metà del secolo il più famoso studioso francese, Arthur de Gobineau, sfruttò appieno queste teorie linguistiche: l’ariano entrò nella storia d’Europa come mito razziale.

La ricerca delle origini ariane non si sarebbe interrotta: a metà del secolo ci fu chi guardò al Nord, alla Scandinavia anziché all’Asia in cerca delle origini razziali e nel 1937-38 Heinrich Himmler tentò di finanziare una spedizione in Tibet che avrebbe dovuto svolgere anche indagini di tipo linguistico; altri giovani nazisti avrebbero cercato antenati ariani in Lapponia e in Svezia.

Friedrich Max Müller
Friedrich Max Müller

Fu Friedrich Max Müller che sintetizzò meglio queste conseguenze razziali: respinse le basi antropologiche della razza e sostenne che solo la linguistica fosse in grado di stabilire l’esistenza della natura della famiglia ariana dei popoli poiché “è la lingua che fa l’uomo” molto più della sua pelle, del suo cranio o dei suoi capelli.

Se Müller rifiutò il tipo ideale (e non ebbe, in questo, successo), non rinunciò comunque ad un ideale astratto per cui gli ariani avevano come caratteristiche tipiche l’indipendenza e la fiducia in se stessi oltre ad uno stile di vita legato alla terra.

Secondo Müller esisteva una “grande fratellanza ariana”, che inglobava la Grecia e Roma, perché il loro “pensiero ancora pervade i nostri pensieri, come il loro sangue può ancora scorrere nelle nostre vene”.

Ai tempi di Müller era già diffusa l’idea che la lingua fosse un elemento fondamentale della nazionalità, la sua affermazione che la comunione di sangue senza comunione di lingua lasciasse gli uomini stranieri tra loro e che la lingua fosse l’essenza di qualsiasi comunità era, almeno in parte, vera e in effetti molte nazionalità dell’impero austriaco avevano resistito ai tentativi di imposizione del tedesco come lingua ufficiale di governo, compiuti nel XVIII secolo.

Il nazionalismo arrivò a sostenere che chi era escluso dalle comuni radici ariane non poteva imparare la lingua locale tanto che ci fu chi sostenne, all’inizio del XIX secolo, che gli ebrei parlavano una mescolanza di tedesco e yiddish, non la lingua pura.

Stesso disprezzo fu applicato ai neri africani e alle loro lingue, ad opera di inglesi e francesi.

Friedrich Blumenbach
Friedrich Blumenbach

La lingua non fu l’unico elemento per definire le origini del carattere nazionale anche se fu uno dei più importanti; se il termine ariano ebbe grande successo: non minore lo ebbe il termine “caucasico” preso a prestito dall’antropologia: questo termine fu coniato nel 1795 da Friedrich Blumenbach per indicare gli europei bianchi poiché si pensava che dalle pendici del Caucaso provenissero le più belle specie europee, tuttavia ci fu chi arrivò considerare il termine ariano come troppo cosmopolita perché inclusivo di troppi popoli.

La prova scientifica era presa dal cranio georgiano ritenuto l’archetipo da cui distavano in maniera particolare i negri e i mongoli.

Gustaf Kossinna sostenne che essi fossero superiori ai romani in virtù di un esame dei manufatti dell’età della pietra, del bronzo e del ferro; egli restringeva quindi il campo dei popoli superiori ai soli tedeschi, idea che Alfred Rosenberg avrebbe continuato durante il terzo Reich, tentando di controllare tutta la ricerca sulla preistoria per dimostrare la superiorità dei tedeschi ariani.

Gustaf_Kossinna_by_Bruno-Dietrich_SassnickAnche Heinrich Himmler si occupava della questione in virtù dell’Ahnenerbe (eredità atavica), istituto all’interno delle SS, che voleva trovare la culla della razza germanica, identificata in tedeschi e olandesi.

I termini “popolo”, “nazione”, “razza”, nella seconda metà del XIX secolo, furono a volte identificati, nonostante gli sforzi di Herder per tenerli separati.

Verso la fine dell’Ottocento ci furono alcuni tedeschi che provarono a sostenere che il Volk non fosse altro che un primo passo verso un’unica umanità, tuttavia essi non ebbero successo e tra l’altro aderirono a questa ideologia principalmente degli ebrei, tra i quali Gustav Landauer e Martin Buber, che avevano l’intenzione di considerarsi tedeschi senza abbandonare gli ideali di una umanità comune che erano stati utili a liberarli dai ghetti e forse utili anche per liberarli dal loro stereotipo.

Assai presto gli stessi indiani furono esclusi dalla razza ariana; lo stesso Hitler sosteneva che essi dovessero essere governati dai bianchi ed era perciò contrario al movimento di liberazione nazionale indiano, sulla stessa linea di pensiero si trovava anche Alfred Rosemberg che li considerava i rimasugli inferiori delle migrazioni verso nord.

Questa visione ristretta era legata allo sforzo di considerare il popolo o la razza come una totalità che includeva tutti gli aspetti dell’esistenza; Heinrich Riehl fondò la scienza dell’Heimatkunde, educazione civica, che era in realtà lo studio del proprio paese natale ed aveva come oggetto un’unità rappresentata dal permanere di tradizioni remotissime: in questo caso era la tradizione che, al posto della lingua, diventava la forza integrante della razza.

Heinrich Riehl
Heinrich Riehl

Queste idee furono diffusissime nell’istruzione dei primi decenni del XIX secolo e si diffusero in tutte le nazioni d’Europa che in quel momento si stavano risvegliando; seppur in diverse forme ed accenti, a seconda delle varie correnti, in fondo furono i tedeschi, e non gli ebrei, a diventare il popolo eletto.

Gli elogi che Tacito riservava agli antichi germani furono collegati al Nuovo Testamento ed entrambi presentati come un enorme progresso rispetto al Vecchio Testamento ebraico: il cammino del popolo nella storia diventa un dramma sacro che simboleggia non solo l’unità tra vita e natura ma la salvezza stessa.

Il Volk divenne il vaso della fede e come tale esaltato come unità separata, incaricato della custodia del Sacro Graal, e all’interno del quale ogni membro svolgeva una funzione sacra: la superiorità fu consacrata in una cornice cosmica la cui prova era fornita dalla linguistica e dalla storia.

Se già in precedenza l’antropologia aveva elaborato un tipo ideale e ne aveva definito l’aspetto esteriore questo si saldò agli altri elementi in elaborazione e tutto contribuì a creare un’identità di superiorità razziale e nazionale che aveva però bisogno anche di radici, l’ultima prova, quindi, doveva essere di tipo storico.

Tacito
Tacito

L’attenzione alle radici storiche di un popolo serviva anche a distinguerlo da tutti gli altri

La Germania di Tacito, riportato in luce nel XVI secolo, venne utilizzata come testimonianza delle virtù pratiche degli antenati germanici; il racconto di Tacito evidenziava proprio quegli elementi positivi che i filologi avevano individuato negli antenati ariani: gli antichi germani si mantenevano puri, non si mischiavano con altre tribù, non vivevano in città, tolleravano a malapena gli insediamenti aggregativi, erano fiduciosi in se stessi, coraggiosi e leali, incapaci di menzogna e di inganno, proprio le virtù che Müller aveva attribuito agli ariani dell’India emigrati nell’Europa del Nord.

Questo tema ebbe grande successo nel tempo visto che nel 1870, ad esempio, il vescovo di Oxford William Stubbs, sosteneva la primordiale purezza delle origini e l’amore per la libertà come caratteristiche della razza teutonica (e l’opera di Stubbs fu utilizzata per l’insegnamento della storia costituzionale inglese fino a ben oltre la fine della seconda guerra mondiale).

William Stubbs
William Stubbs

A loro volta i francesi avanzarono un’identica pretesa, lo storico Numa Denis Fustel de Coulanges sostenne che erano stati i franchi teutoni a civilizzare, combattendoli, i germani; egli elaborò in seguito una più raffinata teoria che individuò la razza celtica come antenata dei francesi, anche se non fu abbandonata l’idea della missione di civilizzare i germani.

I francesi elevarono statue a Vercingetorige come i tedeschi avevano fatto con Arminio, eroi celti e germanici in fondo non così diversi tra loro: prese piede l’idea che questi due popoli antichi fossero costituiti da uomini liberi che avevano creato una forma di eguaglianza spontanea basata più sulla persuasione che sulla forza.

Fustel de Coulanges
Fustel de Coulanges

Müller aveva indicato la libertà come elemento essenziale degli ariani, caratterizzati dalla fiducia in se stessi; il nazionalismo moderno innescò una gara per stabilire quale popolo europeo avesse maggiore amore per la libertà e storici tedeschi, inglesi e francesi cercarono nel passato quelle libere istituzioni che potessero spiegare questo amore ritenuto caratteristico dei rispettivi popoli.

L’idea di fondo era che la nazione rendesse l’individuo libero e la comunità nazionale si fondasse su sentimenti, lingua e storia comuni, non sulla forza.

Si consideri inoltre che nell’Europa centrale e orientale, tra il 1815 e il 1870, il nazionalismo era in lotta contro la reazione che lo voleva sopprimere: la liberazione nazionale dava rilievo alla libertà nazionale e in effetti sia la libertà esterna sia quella interna alla comunità nazionale furono considerate essenziali fino a che queste nazionalità non raggiunsero l’unità.

Francia ed Inghilterra, già da molto tempo unite, svilupparono questo tema secondo la corrente di più forte radicamento dell’idea di libertà, fondata sul passato contro la corruzione del presente.

Chi non poteva vantare queste radici era considerato inferiore perché non conosceva la libertà e di conseguenza voleva rendere schiavo il mondo: questa fu la tipica accusa rivolta agli ebrei che si ritennero privi di spiritualità e perciò desiderosi di imporre agli altri il proprio potere. Già Voltaire aveva sostenuto che gli ebrei erano destinati o a conquistare tutti o ad essere odiati dall’intera razza umana.

Nemmeno i neri potevano conoscere la vera libertà perché incapaci di costituire una vera comunità: se gli ebrei miravano al dominio i neri vivevano nel caos, come sosteneva Gobineau; entrambe le razze erano comunque accomunate da un difetto innato.

de Gobineau
de Gobineau

Lo sviluppo dell’ideale di una comunità nazionale aveva abbandonato il cosmopolitismo di Herder, un abisso separava le varie comunità umane perché l’attenzione era stata puntata sul predominio ariano e non sull’eguaglianza; i fattori soggettivi di storia, lingua e salvezza nazionale furono terreno fertile per la dottrina della razza che era ben presto passata dalla scienza al mito.

Queste dottrine volevano considerare l’uomo nella sua interezza cioè nella sua natura interiore e nell’aspetto esteriore, il nazionalismo cercò in esse le sue radici che affondavano nella storia, nella lingua e nel paesaggio nativo e individuò le tracce delle virtù ariane dal passato al presente; se nella metà del XIX secolo l’edificio non era ancora completo, l’impalcatura era già ben delineata: sembrò a molti, allora, che il conte Arthur de Gobineau fosse l’uomo destinato a completare la costruzione ma, in realtà, egli non fu tanto il padre dell’ideologia razzista quanto il suo sintetizzatore in un momento particolarmente favorevole della storia europea, quando le conseguenze delle rivoluzioni del 1848 stavano scuotendo il continente.

Ps: molte delle foto dell’articolo sono prese da wikipedia che ringrazio.

                                                                                                                                                                 Parma, 28 dicembre 2015

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