Schiele a Milano

Approfittando della lezione mensile di Studium Cartello a Milano e del fatto che i miei compagni di viaggio di quest’anno (Gabriele e Silvia) si sono trattenuti in città per andare alla Scala, mi sono fermato a Palazzo Reale per visitare la mostra dedicata a Egon Schiele, celebre pittore austriaco morto prematuramente nel 1918.

I quadri di Schiele esposti li avevo già visti tutti a Vienna, però dopo alcuni anni, è stato un piacere ripetere l’esperienza. Non saprei spiegare il perchè ma Schiele è un pittore che non mi dispiace anche se trovo varie sue opere un po’ sopra le righe o meglio: i disegni considerati già all’epoca “pornografici” mi sembrano di sicura buona fattura, questo non lo nego, ma un po’ fissati. Le didascalie in mostra parlano di erotismo consapevole e privo di sensi di colpa, io parlerei, piuttosto, di fissazione; una donna è desiderabile solo in quanto vestita e non per moralismo, semplicemente perchè  vestirsi è un modo di prepararsi per un possibile incontro, ivi compreso quello sessuale.

Ogni incontro, peraltro, è sessuale, anche quello tra uomo e uomo, donna e donna anche se questo non richiede, necessariamente, l’uso di determinate parti del corpo.

Chiuso il discorso mostra, avendo la fortuna di Gabriele, durante il viaggio, gli ho proposto alcuni dubbi sullo stato della politica italiana, sempre più preoccupante (sono realmente indeciso se andare a votare, poi votare per chi o per cosa?). Si è, così, parlato di gruppi, di islam, di diritti, di superio.

Il superio, nella forma, usuale, freudiana, ottocentesca, come istanza di repressione e controllo mi pare ormai in declino (non che sia sparita del tutto, prima o poi riprenderà vigore) – peraltro produceva, come dice Gabriele – al suo interno, istanze di ribellione con costi sociali enormi per tenerle poi sotto controllo, per essere sostituita dalla versione istigatoria, perversa, tutta mirata alla realizzazione di ogni “istinto”.

Una costante, mi pare, unisca questi due opposti: da un lato il timore della pulsione e la necessità del suo controllo perchè ritenuta pericolosa per l’ordine sociale costituito (società figlia della rinuncia pulsionale), dall’altro la stessa pulsione, degradata a istinto, affermata come unica sovrana dell’agire (e anche il pensare è azione). In entrambi i casi la pulsione, che è sinonimo di pensiero, ne esce massacrata.

Così mentre nell’Ottocento tutto era dovere, oggi tutto è diritto, astratto ma non per questo meno operante, anzi; la lotta per i diritti civili si è trasformata in una lotta antisociale con costi enormi.

Mi vengono in mente alcuni fatti di cronaca: dalla condanna in Cassazione per un giornalista (credo che quello fosse) che, in un giornale del sud Italia, ha osato affermare che per dirigere un carcere è meglio un uomo piuttosto che una donna, ai tribunali amministrativi regionali che hanno sciolto consigli comunali e non solo per mancanza di un numero sufficiente di donne. Tutto questo sarebbe sanzionabile molto più semplicemente con un appellativo poco carino, senza necessità di adire magistrature, fino al terzo grado di giudizio, avvocati, cancellieri, polizia giudiziaria, spese del tutto superflue e che, alla lunga, paralizzano l’azione di una sana organizzazione sociale.

Non mi pare un caso che l’Italia abbia, in Europa, il maggior numero di cause pendenti davanti ai tribunali (e non solo per carenza dei tribunali medesimi); la frase che sento ripetuta più e più volte, autentico programma di vita: “non lo faccio per un interesse ma per principio”, “è una questione di principio” ne è un segnale diffuso in ogni livello della società. La creazione dei giudici di pace, poi, a mio parere non ha fatto altro che consolidare ed incrementare questa conflittualità: altra organizzazione e costi enormi per fornire ai cittadini il diritto di avere “giustizia”, una giustizia a portata di mano; quante cause in tribunale verrebbero meno grazie ad un semplice uso della capacità di fare compromessi (non necessariamente in perdita). Così le tante cosiddette authorities create negli anni, presuntamente indipendenti (da chi?), enti inutili e l’inutilità non è mai meno che dannosa.

Quando parlo di diritti mi compare sempre davanti  l’immagine di un nostro parlamentare che, solo a sentirne il tono di voce, si avverte quanto incarni lo spirito della pasionaria dei diritti, si percepisce un’untuosità minacciosa di chi è pronto a sgozzare in virtù di un ideale. Mi verrebbe da dire che occorre difendersi da tali individui o da certe idee circolanti ma … la difesa da qualcosa, seppur utile, deve restare, per quanto possibile, ridotta al minimo perchè di ben altra difesa conviene occuparsi.

Si è parlato anche di gruppi, del Gruppo; al lavoro sento spesso dire “siamo un gruppo”, “dobbiamo fare gruppo”, per alcuni anni ho fatto parte di un “gruppo” ecclesiale (ne sono uscito e in quel momento ho scoperto che non vi erano rapporti se non mediati dall’appartenenza al gruppo e a questa subordinati).

Il “siamo un gruppo” visto coi miei occhi (non di quello ecclesiale parlo, in questo caso) l’ho sperimentato come una unione (al cui interno, peraltro, vige un odio spietato) per “delinquere” cioè una coalizione di gente costretta a convivere e unita soltanto dall’idea di conservare privilegi dai quali tenere lontano tutti gli altri; ricordo, in un’occasione per me dolorosa (e deludente) che, rivoltomi ad uno degli appartenenti al gruppo col quale avevo un buon rapporto personale, ne ebbi come risposta: “siamo un gruppo” che sintetizzava questo pensiero: potrei pure darti ragione ma se lo facessi romperei l’unità  (falsa) della mia organizzazione.

Non c’azzecca nulla ma mi viene in mente che la chiesa primitiva sceglieva il proprio vescovo eleggendolo direttamente e scegliendolo, normalmente, all’interno della propria comunità o all’esterno ma in quanto conosciuto; oggi i vescovi sono nominati dal Vaticano, presi da dove capita, un po’ come i prefetti dell’ordinamento civile. Niente di male in questo ma la cosa mi fa pensare che nel primo caso l’elezione è una sorta di predilezione (visti i frutti ti eleggo a preferenza e proprio perchè mi confermerai nel buon lavoro per il quale sei stato prediletto) mentre nel secondo caso il rischio che si corre è l’astrazione teorica: poichè uno è vescovo dirà cose da vescovo che, in virtù di questo, andranno obbedite. Anche in questo caso mi pare ci sia un divario di civiltà.

L’ottimo Gabriele, poi, mi propone alla riflessione il seguente quesito: il Mosè scolpito da Michelangelo, cosa ha in fronte? Un bel paio di corna, luciferine direi. Michelangelo non avrebbe potuto rappresentare i raggi divini in altro modo? sicuramente sì, senza dubbio, allora perchè rappresentarli così? C’è un’ambiguità nella statua che rimanda alla stessa ambiguità che si trova nel Giudizio Universale, Michelangelo imputa la chiesa di non essere fedele? di conservare all’interno di sè stessa la tentazione a costruire su altra testata d’angolo rispetto a quella eredità da Colui che l’ha fondata?

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