Pugno nello stomaco

Eh sì, un pugno nello stomaco, questo è, per me, la parabola di due domeniche fa, ogni volta che la leggo o la sento proclamata a Messa.

Ne ho già scritto, anni fa, ed ho scoperto ora ulteriori sfumature, come accade per ogni buon testo.
Parla di operai, di un datore di lavoro, di vigna, di compenso.
Mi evoca alcuni ricordi, il primo tra tutti riguarda i miei nonni, che hanno vissuto, il nonno Angiolino in particolare, secondo un’etica per cui il lavoro era un valore assoluto.
I miei nonni, di sinistra (votavano partito comunista) erano tranquillamente razzisti, inconsapevoli ma lo erano: a quei tempi non c’era l’immigrazione dall’Africa, c’erano i terroni.
Per i nonni la parola terrone era sinonimo, totale coincidenza di significato, di “non ha voglia di lavorare” (non so scriverlo in dialetto parmigiano, l’idioma da loro utilizzato), debosciato, scansafatiche.
Se uno del sud si fosse dimostrato un serio lavoratore questa differenza geografica sarebbe immediatamente scomparsa perché il disprezzo che circondava i terroni era riservato in egual dose per i parmigiani che sfuggivano ai loro doveri lavorativi (la differenza era che per il terrone vigeva l’onere della prova liberatoria).
Il loro valore assoluto era il duro lavoro, metro di giudizio che anche mia madre ha ereditato e che ben declina quando, facendo confronti tra me e mio fratello (che non lavora in miniera), mi fa notare che lui lavora; alla mia obiezione che anch’io lavoro, la sua imperterrita risposta è immancabilmente: “eh, ma lui lavora!”.
Elogio, insomma, del lavoro duro, fatica, sudore della fronte.
Con connotazioni sfumate ne sono erede anch’io, almeno in parte.
Quando sento la parabola di cui ho già parlato anni fa, a testimonianza delle suggestioni che offre, mi ribolle il sangue, quei rimasugli del sindacalismo di Landini che ancora sopravvivono nel mio pensiero (omnes peccavimus) riprendono vigore inusitato.

La parabola, infatti, prevede il pagamento dello stesso salario, a prescindere dalle ore prestate.

C’è un padrone che, a diverse ore del giorno, si reca in piazza ove stazionano uomini in cerca di occupazione (non c’era il reddito di cittadinanza, ai tempi) o forse soltanto capitati lì perché non sapevano come passare il tempo: coi primi statuisce un contratto che prevede il lavoro presso la vigna in cambio di un denaro, negli altri non viene esplicitata la cifra pattuita.

Gli ultimi vanno alla vigna quando ormai giunge la sera, il solleone è passato: poco lavoro e in condizioni meno pesanti.

Arriva il momento del pagamento e qui la scelta del padrone sembra strana: scegliere di pagare per primi gli ultimi arrivati è inevitabile che esponga alle polemiche e contestazioni che, puntualmente, esplodono quando i primi lavoratori già pregustano un importante aumento dei loro incassi, visto che agli ultimi è stato dato un denaro, proprio come promesso anche a loro.

Potrebbe forse essere che il padrone intenda compensare un altro genere di lavoro ma quel che mi preme evidenziare stavolta è un aspetto diverso, che riguarda gli operai.

I primi operai si sono dedicati completamente al lavoro, gli ultimi in minima parte ed allora il dubbio è: non sarà per caso che faceva comodo, mi riferisco ai primi, ragionare in quel modo?

Essi hanno tratto tutto il loro guadagno all’interno del rapporto salariato col padrone, senza orizzonti diversi: come per i miei nonni, vivevano l’etica del lavoro come sudore della fronte, fatica e investimento di pensiero.

Si dedicavano solo a quello ed in base a quello sono stati compensati: hanno ricevuto esattamente quel che avevano pattuito.

Il padrone, al contrario, premia chi ha fatto altro (non viene specificato che altro, magari erano andati a visitare una mostra, al cinema o a leggere un libro) prima di finire a lavorare nella vigna.

Due tipologie di lavoro, la prima delle quali tende a divenire totalitaria, assorbendo tutte le energie, garantisce la sopravvivenza e funge da sedativo dell’angoscia (ricordo sempre le parole di Giacomo Contri: “le angosce sono di vita non di morte”), è il lavoro salariato del proletariato.

La seconda, tutta da costruire, prevede un modo di lavorare in cui il guadagno è di molto superiore all’impegno (l’imprenditore fallirebbe se fossero in campo solo i fattori monetari), potrebbe essere il caso del lavoro non alienato di marxiana memoria?

In ogni modo siamo in presenza di un caso in cui i conti non tornano.

Tutta da meditare, questa parabola!

Parma,3 ottobre 2023 memoria di san Gerardo di Brogne abate

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