Lavoratore indefesso

Un programma, che non mi piace lo confesso, di Radio 24, condotto da Gianluca Nicoletti, mi ha offerto lo spunto per parlare di un indefesso lavoratore.

L’occasione è data da un viaggio in treno, di qualche tempo fa, non ricordo se di andata o ritorno dalla mia amata Romagna (in realtà sono amati gli amici che vi abitano); in quel frangente ho sentito un colloquio tra due persone che conosco (ma che non mi hanno riconosciuto, almeno sulle prime) per avere partecipato, con tanti altri, ad un convegno.

L’argomento che ha attirato la mia attenzione verteva su un loro collega (che ho scoperto di conoscere anch’io) che, a dire dell’uomo, stava svolgendo dei compiti non adeguati alla sue competenze e che egli avrebbe voluto responsabilizzare maggiormente; la donna gli ribatteva che, a suo parere, non avrebbe mai accettato perché “ha il sindacato, le sue cose da seguire …”, l’uomo rilanciava obiettando che il tizio, essendo dipendente pubblico, era pagato per lavorare e non per seguire il sindacato e le sue cose ma, per tutta risposta, la donna chiudeva l’argomento con una scrollata di spalle, ribadendo che non avrebbe mai accettato.

Episodio banale che non pretende di assurgere a fondamento di qualche teoria sociologica, è stato solo un piccolo scampolo di chiacchiere tra colleghi (non miei, a Parma queste cose è impensabile che accadano).

Il colloquio è proseguito con la descrizione di questo personaggio, protagonista tanto assente quanto mirabile: l’interlocutore uomo tratteggiava una serie di caratteristiche – nessuna positiva – che la donna confermava, quasi come se stessero parlando di qualcuno che con loro non avesse nulla a che vedere.

Mi spiego: l’uomo parlava del nostro personaggio come di un impegnato sindacalista ma ne evidenziava alcune anomalie quali l’interesse primario per i propri obiettivi personali (come diceva dei comunisti la mia professoressa di filosofia del liceo: “orate pro me e per gli altri se ce n’è”), il comportamento maschilista, volgare, con continui riferimenti sessuali non proprio politicamente corretti; aggiungeva che qualche collega donna riteneva questi comportamenti gretti, rozzi e inaccettabili ma li sopportava con stoica rassegnazione.

La donna mai ha obiettato a questa analisi e si è limitata ad assentire.

A quel punto, essendomi alzato per far passare un altro viaggiatore, lei mi ha riconosciuto ed il colloquio è cessato perché sono stato invitato ad accomodarmi vicino a loro e via di amarcord …

Quelle parole mi hanno risvegliato ricordi romagnoli, quando, giovane operatore, inspiegabilmente ero entrato sotto le benevole luci della ribalta di una serie di colleghi, del tutto casualmente esponenti di quello stesso sindacato.

Tanto era l’interesse di questi amabili sindacalisti, che avevano a cuore la tutela dei lavoratori e non solo quella, anche il loro benessere psicofisico, che avvenne un episodio, da ripensare alla luce delle affermazioni del giornalista Giambruno di qualche tempo fa.

Accadeva, dunque, che me ne ero andato in quel di Ravenna, partendo non dirò da dove, a fine turno del mattino, con lo scopo di far visita ad alcuni amici di quei tempi; l’appuntamento era nella spiaggia libera di Lido di Classe, cui si accede percorrendo un ameno sentiero all’interno della pineta.

Parcheggiai l’auto in via Vitus Bering – se vi chiedete perché ricordi con tanta precisione il nome di una strada del tutto insignificante (io che non ricordo manco l’indirizzo di casa), ciò dipende dagli sviluppi che scoprirete tra poco -.

Nell’incamminarmi verso la pineta di parve di scorgere una vespa alquanto antiquata che avevo visto da qualche giorno nel cortile del comando ove lavoravo; essendo ignorante anche in fatto di veicoli e motocicli e considerato che la motoretta si era immediatamente allontanata, non diedi alcuna importanza alla vicenda.

Percorso il sentiero arrivai a destinazione e trascorsi una tranquilla giornata marittima, in amena compagnia, per tornarmene la sera, rilassato e abbronzato in quel di Miramare, dove allora abitavo.

Ora non ricordo con precisione la successione temporale, fatto sta che il giorno successivo o alcuni giorni dopo, apprestandomi a timbrare l’inizio del servizio mattutino, mi trovai 4 colleghi che, posizionati ai 4 angoli del grande salone d’ingresso, chiacchieravano amabilmente; uno di costoro, allora era un maresciallo, chiedeva, esibendo una grande curiosità di cui mai mi ero accorto in precedenza: “Di’ ma lo sai te chi era Bering Vitus?”, lo pronunciava in dialetto romagnolo ma non o saprei scrivere correttamente quindi accontentatevi dell’italiano.

Il collega interpellato non era in grado di rispondere ma ridacchiava così come gli altri due silenti testimoni, tutti molto allegri di ignorare chi fosse il famoso esploratore.

Rimasi un po’ stupito da tale stringato colloquio poiché non mi spiegavo quale interesse potessero nutrire per le vicende umane dello sfortunato esploratore, conoscendoli come convinti anzi incalliti ignoranti.

A costo di annoiarvi, apro una parentesi sul maresciallo; lo avevo soprannominato “maresciallo de quo” (lo so, sono bravo a farmi gli amici quando mi impegno) perché volendosi dare un tono, quando doveva scrivere qualche comunicazione, si abbeverava allo stile ampolloso, burocratico e ministeriale delle ordinanze prefettizie.

Le lettere che uscivano dal suo computer erano, quindi, straordinarie perché avevano questo stile quasi ottocentesco nelle righe copiate dalle ordinanze prefettizie ma, essendo necessario qualche inserimento personale per completare il documento, sparsi qua e là spuntavano degli autentici orrori grammaticali tali da far comparire lo spirito di Alessandro Manzoni a chiedere vendetta.

Non contento, il nostro maresciallo amava particolarmente utilizzare “de quo”, inserendolo, ovviamente, a sproposito, ignorando la necessità di far concordare il genere, per non parlare del plurale.

Chiudo la parentesi maresciallesca per tornare al resoconto: passarono ancora alcuni giorni e un collega e amico mi prese da parte e mi informò del fatto che un altro collega, quello della Vespa, mi aveva seguito a Ravenna, aveva addirittura acquistato una macchina fotografica usa e getta per immortalarmi, ma avendomi perso, si era dovuto accontentare di fotografare la mia auto in sosta.

Averlo saputo che avevo un body guard anzi un angelo custode che vegliava perché non facessi brutti incontri! In puro stile giambrunesco questo caro collega si prendeva cura della mia sicurezza – sorvegliava affinché non incontrassi il lupo – e pure gratuitamente, ed io, ingrato, non lo apprezzai per nulla.

Il mio amico mi chiese dove fossi andato e, saputolo, essendo un conoscitore di Ravenna e della zona di Classe, mi disse che avevo probabilmente parcheggiato in via Vitus Bering (cosa che ebbi modo di verificare durante la visita successiva): ecco spiegato (anche di questo ho avuto conferma ben più tardi) il senso del colloquio di prima, era un modo obliquo, mafioso direi, per farmi sapere che ero “attenzionato”.

A che pro questa lunga digressione? Giusto per informazione, l’episodio di cui ho parlato non è stato l’unico sebbene, forse, il più grave.

Una costante ho riscontrato: questi sinistri sindacalisti avevano un folto seguito, anche di persone bravissime, oneste e corrette, cosa per me inspiegabile.

A fronte di comportamenti reiterati di cui addirittura menavano vanto, la massa è rimasta inerte, non un minimo segno di solidarietà, dissociazione, protesta, nulla di nulla.

Ho ritrovato identica inerzia riguardo al personaggio del treno e ne ho provato analogo stupore: come è possibile che donne di sinistra, emancipate come va di moda dire oggi, alcune anche laureate, possano tollerare comportamenti così disgustosamente sessisti?

Potenza dell’ideologia, che fa chiudere gli occhi anche davanti all’evidenza; i frammenti di programmi televisivi di questi giorni me ne hanno fornito ulteriore conferma.

Diceva il saggio: quando la teoria non collima con la realtà, «tanto peggio per i fatti», questa frase andrebbe scolpita ad ogni angolo di strada.

Parma, 23 settembre 2023 memoria di san Lino Papa e martire

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