Siamo agli esordi del pontificato ma le premesse mi sembrano davvero delle migliori.
L’omelia durante la messa celebrata in san Pietro alla presenza dei cardinali ha affrontato un tema fondamentale: «La gente – chiede Gesù –, chi dice che sia il Figlio dell’uomo?».
Non un leader carismatico o un superuomo e, aggiungerei io, chiarisce il Papa, nemmeno il Pontefice lo è.
Poi nell’udienza ai giornalisti li invita a confrontarsi col Discorso della montagna, ricordando la beatitudine dei miti.
Lascio volentieri la parola al Sovrano Pontefice felicemente regnante, per il quale innalzo fervide preghiere quotidiane (come facevo col suo augusto predecessore, perché si deve sempre pregare per il Pontefice, chiamato ad un compito impossibile).
Unica nota, per il mio giudizio stonatissima, in questo ammetto di essere un vecchio barbogio, è stata l’udienza al tennista, come l’avere manifestato il tifo per una squadra di calcio: su alcune questioni ammetto la mia totale mancanza di apertura di orizzonti e resto convinto che un uomo di Dio dovrebbe evitare tutto quel che ha a che fare con le competizioni sportive.
Un difettuccio comunque accettabile e abbastanza veniale (ma non troppo).
Ecco, dunque, alcune delle parole di S.S. Leone XIV, che il Signore lo benedica e ce lo conservi a lungo in salute e lo confermi nella fede, speranza e carità, riprese dai due eventi di cui ho parlato prima:
«La gente – chiede Gesù –, chi dice che sia il Figlio dell’uomo?» (Mt 16,13). Non è una questione banale, anzi riguarda un aspetto importante del nostro ministero: la realtà in cui viviamo, con i suoi limiti e le sue potenzialità, le sue domande e le sue convinzioni.
«La gente chi dice che sia il Figlio dell’uomo?» (Mt 16,13). Pensando alla scena su cui stiamo riflettendo, potremmo trovare a questa domanda due possibili risposte, che delineano altrettanti atteggiamenti.
C’è prima di tutto la risposta del mondo. Matteo sottolinea che la conversazione fra Gesù e i suoi circa la sua identità avviene nella bellissima cittadina di Cesarea di Filippo, ricca di palazzi lussuosi, incastonata in uno scenario naturale incantevole, alle falde dell’Hermon, ma anche sede di circoli di potere crudeli e teatro di tradimenti e di infedeltà. Questa immagine ci parla di un mondo che considera Gesù una persona totalmente priva d’importanza, al massimo un personaggio curioso, che può suscitare meraviglia con il suo modo insolito di parlare e di agire. E così, quando la sua presenza diventerà fastidiosa per le istanze di onestà e le esigenze morali che richiama, questo “mondo” non esiterà a respingerlo e a eliminarlo.
C’è poi l’altra possibile risposta alla domanda di Gesù: quella della gente comune. Per loro il Nazareno non è un “ciarlatano”: è un uomo retto, uno che ha coraggio, che parla bene e che dice cose giuste, come altri grandi profeti della storia di Israele. Per questo lo seguono, almeno finché possono farlo senza troppi rischi e inconvenienti. Però lo considerano solo un uomo, e perciò, nel momento del pericolo, durante la Passione, anch’essi lo abbandonano e se ne vanno, delusi.
Colpisce, di questi due atteggiamenti, la loro attualità. Essi incarnano infatti idee che potremmo ritrovare facilmente – magari espresse con un linguaggio diverso, ma identiche nella sostanza – sulla bocca di molti uomini e donne del nostro tempo.
Anche oggi non mancano poi i contesti in cui Gesù, pur apprezzato come uomo, è ridotto solamente a una specie di leader carismatico o di superuomo, e ciò non solo tra i non credenti, ma anche tra molti battezzati, che finiscono così col vivere, a questo livello, in un ateismo di fatto.
Questo è il mondo che ci è affidato, nel quale, come tante volte ci ha insegnato Papa Francesco, siamo chiamati a testimoniare la fede gioiosa in Cristo Salvatore. Perciò, anche per noi, è essenziale ripetere: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente» (Mt 16,16).
È essenziale farlo prima di tutto nel nostro rapporto personale con Lui, nell’impegno di un quotidiano cammino di conversione. Ma poi anche, come Chiesa, vivendo insieme la nostra appartenenza al Signore e portandone a tutti la Buona Notizia (cfr Conc. Vat. II, Cost. Dogm. Lumen gentium, 1).
Dico questo prima di tutto per me, come Successore di Pietro, mentre inizio questa mia missione di Vescovo della Chiesa che è in Roma, chiamata a presiedere nella carità la Chiesa universale, secondo la celebre espressione di Sant’Ignazio di Antiochia (cfr Lettera ai Romani, Saluto). Egli, condotto in catene verso questa città, luogo del suo imminente sacrificio, scriveva ai cristiani che vi si trovavano: «Allora sarò veramente discepolo di Gesù Cristo, quando il mondo non vedrà il mio corpo» (Lettera ai Romani, IV, 1). Si riferiva all’essere divorato dalle belve nel circo – e così avvenne –, ma le sue parole richiamano in senso più generale un impegno irrinunciabile per chiunque nella Chiesa eserciti un ministero di autorità: sparire perché rimanga Cristo, farsi piccolo perché Lui sia conosciuto e glorificato (cfr Gv 3,30), spendersi fino in fondo perché a nessuno manchi l’opportunità di conoscerlo e amarlo.
Nel “Discorso della montagna” Gesù ha proclamato: «Beati gli operatori di pace» (Mt 5,9). Si tratta
di una Beatitudine che ci sfida tutti e che vi riguarda da vicino, chiamando ciascuno all’impegno di
portare avanti una comunicazione diversa, che non ricerca il consenso a tutti i costi, non si riveste
di parole aggressive, non sposa il modello della competizione, non separa mai la ricerca della
verità dall’amore con cui umilmente dobbiamo cercarla. La pace comincia da ognuno di noi: dal
modo in cui guardiamo gli altri, ascoltiamo gli altri, parliamo degli altri; e, in questo senso, il modo
in cui comunichiamo è di fondamentale importanza: dobbiamo dire “no” alla guerra delle parole e
delle immagini, dobbiamo respingere il paradigma della guerra.
Viviamo tempi difficili da percorrere e da raccontare, che rappresentano una sfida per tutti noi e
che non dobbiamo fuggire. Al contrario, essi chiedono a ciascuno, nei nostri diversi ruoli e servizi,
di non cedere mai alla mediocrità. La Chiesa deve accettare la sfida del tempo e, allo stesso
modo, non possono esistere una comunicazione e un giornalismo fuori dal tempo e dalla storia.
Come ci ricorda Sant’Agostino, che diceva: “Viviamo bene e i tempi saranno buoni” (cfr Discorso
311). Noi siamo i tempi».
Oggi, una delle sfide più importanti è quella di promuovere una comunicazione capace di farci
uscire dalla “torre di Babele” in cui talvolta ci troviamo, dalla confusione di linguaggi senza amore,
spesso ideologici o faziosi. Perciò, il vostro servizio, con le parole che usate e lo stile che adottate,
è importante. La comunicazione, infatti, non è solo trasmissione di informazioni, ma è creazione di
una cultura, di ambienti umani e digitali che diventino spazi di dialogo e di confronto.
Voi siete in prima linea nel narrare i conflitti e le speranze di pace, le situazioni di ingiustizia e di
povertà, e il lavoro silenzioso di tanti per un mondo migliore. Per questo vi chiedo di scegliere con
consapevolezza e coraggio la strada di una comunicazione di pace.
Parma, 14 maggio 2025, festa di san Mattia apostolo e solennità di santa Maria Domenica Mazzarello