C’era una volta

C’era una volta una squadra di palla avvelenata che aveva un rendimento un po’ scarso, vuoi per investimenti mai fatti nel passato prossimo e remoto, vuoi per scelte infelici – gli allenatori si sono alternati con la velocità della luce, vuoi per la ormai cronica mancanza di giocatori, insomma le cause sono tante che ci si potrebbe scrivere un libro, se ne valesse la pena, cosa che escludo.
L’ultimo proprietario decide di dare una sterzata epocale ed inizia ad investire, con qualche inghippo dovuto alla mala sorte, che non manca mai nelle migliori imprese (vedasi Odissea): prevede un cospicuo aumento del parco giocatori – sempre di molto insufficiente ma almeno aumenta – e sceglie un team manageriale di punta di altissimo prestigio.
L’allenatore prescelto è di provata esperienza, con un curriculum davvero di gran livello; è vero, a guardar bene un piccolo neo potrebbe pure esserci ma è un dettaglio buono solo per gli irriducibili, eternamente insoddisfatti, disfattisti.
Che dettaglio è? Semplice semplice: l’allenatore proviene dal mondo del curling, ha sempre allenato una squadra di curling, in quell’ambiente è nato e si è fatto notare; nessuna esperienza nella palla avvelenata.
Dettaglio di poco conto, il proprietario della squadra avrà ben riflettuto e preso i dovuti correttivi ed infatti così è accaduto: il primo collaboratore tra proprietà ed allenatore, figura che raccorda le esigenze di entrambi, ha un curriculum non meno invidiabile.
Ma anche qui un diavoletto sussurra maligno: curriculum?
In effetti anche questo personaggio ha sempre vissuto e lavorato nel mondo del curling, nemmeno in ruoli di rilievo, di coordinamento o manageriali, ma adesso farà benissimo, ne sono tutti certi.
I due prescelti sono ottimi rappresentanti di questo affascinante mondo del curling e, l’abbiamo capito vero? non hanno una mezza idea di cosa sia la palla avvelenata.

Il che può essere un bene: tutto nuovo ovvero uno stimolo pazzesco ad imparare, apertura agli stimoli, impegno con nuove energie quindi, a prescindere dalle esperienze precedenti, l’allenatore potrebbe darsi da fare e, studiate le peculiarità del nuovo sport, dedicarcisi con tutta la sua professionalità, magari sfruttando insegnamenti che ho trovato in giro nel web; un sito, tra i tanti, ad esempio, ci descrive le qualità di un buon allenatore:

UN ALLENATORE DOVREBBE SAPER:

  • essere l’epicentro della forza coesiva del gruppo;
  • rappresentare un modello sia dal punto di vista tecnico che comportamentale, etico, ecc.
  • sollevare la squadra dal peso delle decisioni e delle responsabilità affinché rimanga concentrata sul compito,
  • svolgere le funzioni esecutive per raggiungere gli scopi del gruppo (stilare il programma di lavoro, preparane l’attuazione, guidarne lo svolgimento);
  • rappresentare e difendere la squadra nei rapporti con l’esterno;
  • controllare le relazioni tra i membri ponendosi al centro della rete di comunicazione del gruppo (senza per questo centralizzarla)”. (da https://www.mental-training.it/figura-chiave-lallenatore).

Nella realtà si scopre che nulla di tutto questo, nella nostra favola, accade: l’allenatore se ne sta chiuso nella sua torre d’avorio, non dialoga con nessuno, nessuno conosce se non pochissimi, al vertice della struttura.

Forse abituato con la proprietà della squadra di curling, il Nostro si rivolge alla nuova proprietà che lo ascolta con sufficienza per non dire che lo ignora, ma non per cattiveria, probabilmente per semplice incompetenza.

Il risultato è scontato, la favola non termina col consueto “e vissero tutti felici e contenti”, ma con un diffuso scontento, malumore, gruppuscoli che si isolano  e a volte si fanno la guerra reciprocamente, il tutto nell’immobilismo più totale; pare che nessuno voglia investirci, anzi sembra che l’idea più diffusa sia quella di scapparsene il prima possibile.

In queste situazioni, è normale che accada, ingrassano anche alcuni pescecani che, tronfi del loro potere di interdizione e di privilegi più o meno correttamente ottenuti, sanno di poter fare il buono e cattivo tempo, impuniti; di uno ho già parlato in passato.

Scrivendo mi è tornato in mente un racconto di Gilbert Keith Chesterton, con protagonista Padre Brown, intitolato “La maledizione dei Darnaway“.

C’è un ambiente cupo, oppressivo, proprio come lo spogliatoio della squadra di palla avvelenata; eccone la descrizione:

“un lungo edificio che si allungava dai campi alle sabbie del mare, così che il suo bordo di erbacce malsane e di rovi sembrava quasi incontrare le alghe. Però, la caratteristica più singolare dell’edificio era la sua parte superiore, che aveva l’aspetto dentellato delle rovine, bucherellato da così tante grandi finestre e ampie fenditure da risultare uno scheletro scuro contro la luce morente. La parte inferiore dell’edificio quasi non aveva finestre, poiché la maggior parte erano chiuse con mattoni e i loro contorni erano difficilmente distinguibili nella luce crepuscolare. …  «Chi accidenti può vivere in quel vecchio guscio?» …  «Potreste attendervi degli spettri», … «Beh, le persone che Io abitano, sono davvero simili a spettri.»”

Non so se ho reso l’idea, ma lo scrittore continua: ” «Sono sempre tutti ammalati in un luogo simile», …, «solo che alle volte sono troppo ammalati per saperlo. L’aria stessa di quel posto è avvelenata e pestilenziale.»”

Pare non esserci via d’uscita.

Ma c’è Padre Brown: sfortunatamente nel nostro racconto non ci sono sacerdoti appassionati del pensiero, il reverendo risolve il cupo mistero della maledizione, in questo racconto, invece, tutto sembra destinato a restare immutato.

Non c’è chiusa migliore di quella del Poeta: “Lasciate ogni speranza voi ch’entrate”.

O forse no?

Parma, 2 dicembre 2023, memoria di Santa Bibiana e del Beato Giovanni Slezyuk, martiri

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