La morte del capitano

Della prima guerra mondiale ignoro tutto: non la si studiava a scuola, ai miei tempi (e non so nemmeno se lo si faccia oggi).

Due  vaghi ricordi però: mio nonno Angiolino, nato nel 1900, aveva ricevuto una medaglia non si a bene per cosa: di sicuro aveva prestato servizio militare solo per poche settimane quindi era stato congedato perchè in guerra c’erano già il padre ed un fratello maggiore: la mia fonte purtroppo però non è sicura di quale guerra si trattasse,

Andando con un po’ di logica escluderei la seconda guerra mondiale visto che il nonno aveva oltre 40 anni e suo padre sicuramente era oltre i 60, età un po’ troppo avanzata per fare il soldato.

Della prima guerra mondiale mi viene un altro episodio, con protagonista un lontano parente assolutamente sconosciuto; doveva essere un cugino del mio bisnonno materno o il figlio di un cugino del predetto bisnonno.

Questo giovanotto se ne andò dunque in guerra trovando sulla sua strada un capitano fetentosetto (almeno a dire di questo parente); le non meglio precisate angherie dell’ufficiale culminarono in una trucida scena di violenza: il giovane soldato, in preda all’ira per l’ennesimo sopruso, tira d’impulso un fendente al superiore, usando la baionetta e gli taglia un orecchio.

Finisce in carcere, entità della pena e durata ignote.

La guerra procede come si sa, i soldati non bastano mai, a qualcuno degli ufficiali superiori viene l’idea di proporre la liberazione dei prgionieri che si offrono per gli assalti all’arma bianca: il mio parente accetta, convinto di tornare vivo anche da quella che sembrava essere più l’esecuzione di una condanna a morte che una liberazione dal carcere.

Il nostro è tornato, sopravvissuto ad una prova tremenda, ma non prima di avere saldato i conti; durante uno degli assalti cui ha preso parte a cadere vittima è stato il famigerato capitano, vittima di “fuoco” (forse più realisticamente baionetta) amico, beh non tanto amico. Il mio lontano parente avrebbe ucciso il capitano.

Uscito vivo dal conflitto, da sempre socialista come tutti i miei parenti (molti dei quali, mio nonno ad esempio, divenuti comunisti, non so con che coscienza; forse la stessa che ha spinto mia madre ancora un anno fa ad andare a votare e votare per quel partito che è contro i padroni – il Pd – se una tale fede l’avesse per le questioni religiose sarebbe additata da tutti come santa in terra).

Divenuto padre di tenera creatura, la perse un giorno che si trovò la casa circondata dai fascisti: la moglie aprendo le finestre e vedendo la casa così accerchiata, colta da malore svenne, lasciando cadere il bambino che teneva tra le braccia, provocandone così la prematura scomparsa.

Gli altri famigliari uscirono indenni dall’episodio perchè ruppero l’accerchiamento fascista armati di falci, falcetti ed altri strumenti tipici del lavoro del contadino di allora, molto utili ad indurre a più miti consigli i potenziali aggressori.

Questo parente sopravvissuto alla Grande Guerra è stato vinto dai postumi di un intervento chirurgico di ernia (oggi banale). A quei tempi, dovrebbero essere sui 40 anni fa, l’operazione all’ernia richiedeva, secondo la memoria dei miei vecchi, l’astensione dai liquidi per una settimana; quest’uomo che amava il vino (ma non era etilista, come furono invece altri parenti di un diverso ramo famigliare, quello del nonno paterno), lasciato solo uno dei giorni successivi all’intervento, assetato, si concesse un bicchiere di vino che ne provocò un inarrestabile peggioramento fino alla morte.

Storie drammatiche, semplici, tipiche di una bassa che la penna di ben altri ha saputo valorizzare ed immortalare in don Camillo e Peppone. Non ardisco confrontarmi con Guareschi. Salvo, per il futuro, un brandello di storia già troppo sfilacciato: lo lascio in eredità ai miei nipoti.

Questi racconti, orali, così personali, mi fanno pensare ad Omero, alla trasmissione del sapere ed a quanto è andato irrimediabilmente perduto; mi avverto come fossile, appartenente ad una generazione che ancora ha potuto ascoltare qualche racconto di un mondo che sembra irreale nella distanza temporale e che, invece, è stato quasi l’altro ieri per la storia.

Parlando di comunisti, mi viene in mente che la domenica mattina passavano, ogni tanto, i compagni a vendere le copie de “L’Unità”, compagni che provenivano, a dir dei miei, dai capanòn, i palazzi di Via Cocconi, per noi sinonimo comunque della peggior specie di ominidi.

I capanòn erano una forma di metonimia, credo, che identificava ad un tempo i palazzoni di edilizia popolare (ancor oggi scempio di quella via, rimasta immutata nella sua bruttezza) ed i loro abitanti, considerati gente poco per bene e da evitare come la peste: erano, si potrebbe dire, i terroni di casa nostra, terroni parmigiani, non di importazione.

Li si considerava, ad un tempo, privilegiati perchè assegnatari di casa popolare e ad un tempo bacino fedele del partito che in quel modo li aveva compensati: in ogni caso da temere ed evitare.

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