La Certosa di Bologna

La Certosa di Bologna è il cimitero monumentale della città, proprio come avvenuto per quella di Ferrara, sebbene la riduzione a cimitero di quella felsinea sia avvenuto 12 anni prima, nel 1801.

Mi è venuta l’idea di visitarla non so bene perché, a parte la conclamata passione per cimiteri e tombe, forse per alimentare quella vena malinconica che ogni tanto riemerge e mi assale.

L’intenzione era di partire di buon mattino e concedermi un’intera giornata di permanenza nella città dell’Alma Mater ma spesso i progetti si infrangono contro difficoltà contingenti e, nel mio caso, ho dovuto rinviare la partenza all’immediato dopo pranzo,.

Mal me ne incolse, come ormai è consuetudine, perché, nonostante l’ora che invita alla pennichella, il traffico è intenso, i rallentamenti frequenti e la coda al casello sconfortante e fortuna che ho evitato la fila centrale dove un torpedone rumeno ha bloccato l’uscita (per motivi a tutti ignoti) per decine di interminabili minuti; la tensione mi aveva però inquietato e, al momento buono, ho fatto letteralmente volare il bancomat dall’ostica fessura che avrebbe dovuto amabilmente spennarmi il pedaggio.

Con contorsione che ha messo a prova le mie logore giunture sono riuscito a scendere, a recuperare la preziosa lamina di plastica ed allontanarmi dal malefico casello.

Eccomi infine all’ingresso della Certosa: intravedo a distanza una volante della Polizia (che poi non rivedrò più segnale che qualunque problema vi fosse, era stato risolto) ma l’attenzione è subito deviata verso le tombe.

Una premessa: la Certosa, nella sua grandiosità, è testimonianza del successo di un ordine molto austero che ha vissuto un’epoca d’oro nel XIV secolo per poi declinare com’è accaduto per tantissimi ordini contemplativi; non foss’altro che per l’età non è quella la mia strada ma il carisma dei Certosini è estremamente affascinante, tanto da farmi paura.

Come ogni cimitero monumentale che si rispetti, anche la Certosa di Bologna è caratterizzata da strati di polveri, tombe abbandonate a se stesse, fiori di plasticaccia ingialliti, un vago senso di trascuratezza diffuso a macchia di leopardo e qualche immancabile splendido micetto che si aggira curioso e guardingo.

Veniamo al cimitero, innanzitutto mi sembra spontaneo un paragone con quello di Milano: a mio parere sono due cimiteri assolutamente borghesi, nel senso che la borghesia vi ha lasciato un’impronta significativa; a Milano è molto più evidente una dimensione e europea, l’arte funeraria mi è sembrata più all’avanguardia, gli stili sono eterogenei e rispecchianti le mode culturali del momento, mentre a Bologna le rappresentazioni più ardite sono più rare anche, lo stile liberty, ad esempio, è molto presente.

Come a Milano anche a Bologna traspare la virtù della laboriosità, il lavoro viene spesso celebrato come fonte di agiatezza e di realizzazione personale, numerose sono le lapidi o i monumenti che lo esaltano come fonte di benessere (e prestigio sociale) personale ma anche sociale: il bolognese arricchito, di successo, ci tiene ad immortalarlo anche nel marmo sebbene  le statue di nerboruti operai, uomini seminudi in pose plastiche che rimandano alla classicità o donne vestite alla moda, in pose quasi provocanti, siano numericamente di molto inferiori.

La Certosa di Bologna sembra dirci: “sì siamo borghesi, senza vergogna, ma con juicio”, senza stramberie.

Un bel numero di professori universitari ricorda ai posteri le proprie specializzazioni anche se me ne aspettavo di più vista la secolare presenza dell’Alma Mater.

Premetto che ho visitato il cimitero andando a zonzo, casualmente, tra le tombe, un po’ com’è mio costume ed un po’ perché, considerando il mio senso dell’orientamento, anche se mi fossi organizzato un percorso non lo avrei mai rispettato: questo comporta un vagare disordinato e la probabile, anzi sicura “perdita” di alcune tombe, ragion per cui dovrò tornare in Certosa, appena mi sarà possibile.

Mi sono imbattuto in una sezione del cimitero che ospita i caduti della Grande Guerra, oltre allo strazio dei genitori, che spesso piangevano figli unici, ho ritrovato gli stessi motivi commemorativi e celebrativi presenti a Milano, che mi hanno richiamato alla memoria gli ottimi studi di George Mosse dedicati alla religione civile della patria, e termini che oggi credo farebbero sorridere i giovani ventenni o poco più che si sono trovati catapultati e sono stati divorati da una immane tragedia.

Traspare, sebbene mitigato dal dolore, l’entusiasmo dei volontari, l’eroismo degli ufficiali, il senso di dedizione ad una causa per la quale si riteneva valesse la pena mettere in gioco la vita stessa.

Notevole anche il Monumento Ossario ai caduti partigiani che sembra ergersi come un enorme camino, mi ricorda quello di una centrale atomica, sul cui bordo alcune figure sembrano in procinto di ascendere al cielo (altri si vedono dall’interno, in moto ascensionale): opera di quel razionalista (corrente artistica) e comunista di Piero Bottoni.

Altri particolari che mi hanno colpito: i numerosi epitaffi in latino – a memoria, ma potrei ingannarmi – non ne ricordo altrettanti negli altri cimiteri che ho visitato, così come i ritratti a cammeo (la mia ignoranza nelle definizioni tecniche corrette è abissale) che sono frequentissimi, proprio come lo sono attualmente le foto.

Camminando per i vari settori, si trovano tombe ovunque, gli si cammina sopra, le lapidi occupano veramente ogni spazio possibile; molte di queste sembrano dei piccoli cestini per la carta, insomma tutto è molto curioso.

Di grande successo ci sono i grandi sarcofagi, alcuni anche abbondantemente decorati, la gran parte, invece, molto sobri e con linee essenziali; le dimensioni mi ricordano alcuni sarcofagi imperiali o di altissimi dignitari dell’età tardoantica, le linee rimandano a periodo ben più recente ovvero il secolo scorso o quello precedente.

Spicca, ad esempio, quello di Giosuè Carducci, monolito rosso, dono degli italiani all’estero (chissà poi perché), ma di non minore impatto è quello di Giuseppe Dozza, storico sindaco della città felsinea nel dopoguerra. Più dimessa ma sempre in stile essenziale, anche la tomba di Ottorino Respighi, celebre musicista che, com’è piccolo il mondo, era nipote dell’organista del Duomo di Fidenza (ai tempi Borgo San Donnino).

Musicista per musicista, ecco sempre a due passi, la tomba di Lucio Dalla, non monumentale, né sarebbe stato credibile, ma simpatica e gradevole, opera dello scultore Antonello Paladino su progetto di Stefano Cantaroni, un amico del mitico cantautore.

Temo mi sia sfuggita, invece, quella di Giorgio Morandi, ma il girovagare a caso, come dicevo, non aiuta a vedere tutto quel che sarebbe indispensabile non perdere.

Per lo stesso motivo, ed il timore di non riuscire a vedere la chiesa, ho perso il monumento ai martiri della rivoluzione fascista che è accanto al Monumento ossario ai caduti della Grande Guerra che, invece, ho visitato.

Non ho perso la tomba di Marco Minghetti, importante politico del periodo di passaggio tra i vari stati italiani ed il Regno d’Italia unificato.

Commovente per non dire straziante il ricordo del sottotenente Luigi Giovannini, vittima dell’ultimo assalto tedesco nel 1944, defunto giovanissimo, genitore di un figlio non ancora nato.

Curiosa per la storia, non tanto per il monumento in sé, è la tomba dei coniugi Amico, Pietro e Anna Bonazinga, celebri perché lui famoso mesmerista, lei sonnambula veggente, celebrata nella tomba come la più importante veggente del diciannovesimo secolo.

La loro storia è curiosa perché i pazienti che si recavano nello studio, raccontavano i loro dolori i loro problemi al marito, questi induceva la moglie probabilmente in uno stato di trans, forse ipnosi, e da quello stato dava indicazioni terapeutiche, tutto al modico prezzo di tre lire (rivalutato ad agosto 2021 sarebbero poco meno di 15 €, prezzo decisamente popolare).

Per coloro che necessitavano di un consulto, ma riservatamente, o non potevano recarsi a Bologna, era possibile inviare una lettera contenente la descrizione dei sintomi, due capelli dell’ammalato, tre lire e 20 centesimi ed ecco che avrebbero ricevuto tutto quanto a domicilio.

Il tutto, abbondantemente ed efficacemente aggiungerei io, pubblicizzato sui giornali dell’epoca con inserzioni a pagamento

La suddetta Anna D’Amico gode del privilegio di avere ben due monumenti funebri, unico caso all’interno del cimitero della Certosa di Bologna (ma io ne ho visto uno solo).

Curiosa la lapide di Leonello Grossi perché vi ha fatto incidere l’iscrizione all’università a 16 anni poi la direzione della farmacia cooperativa e l’attività di deputato, insomma un curriculum vitae.

Paolo Neri fa edificare una tomba che ricorda vagamente un tempio egizio (ma forse è solo una mia impressione); sia come sia, ci sono due figure femminili che poggiano un braccio (una con un fiore) su un grande volume aperto sul quale si legge la professione del defunto: industriale tipografo.

Varie le tombe che ricordano quelle famose di Canova, come porta d’ingresso ad un mondo inaccessibile all’osservatore ma non per questo meno presente.

Spicca tra le tante, quella del generale Giuseppe Grabinski, già appartenente all’esercito napoleonico, rappresentato in abiti da antico romano, in posa battagliera con tanto di spada sguainata diretta verso l’osservatore e bandiera al fianco; ai lati le tombe di figlio e nuora, decisamente più sobrie.

Neoclassicismo imperante: sobrietà, compostezza e richiamo all’antichità greco romana.

Luigi Roncagli, su progetto di Vincenzo Vannini realizza la tomba di Olimpia Spada: notevole è l’Allegoria della Speranza che regge un’ancora, segno al contempo di stabilità nella fede e fermezza nella speranza: fede e speranza, virtù eminentemente cristiane, sebbene non vi sia nessun riferimento esplicito al cristianesimo.

Da notare, nella tomba Colbran, la mesta figura di Isabella Colbran, seduta e con un braccio appoggiato al cippo che reca l’immagine del padre, Giovanni, violinista spagnolo; di fronte a lei un putto alato suona la cetra.

Ma chi è mai questa Isabella Colbran? Descritta come una bellissima donna, fu la prima moglie di Gioacchino Rossini, poi abbandonata per Olimpia Pelissier; nella tomba sono sepolti anche i genitori del compositore, sebbene i rapporti tra loro e la nuora non fossero stati dei più sereni.

Giorgio Kienerk è l’autore della tomba di Filippo Comi, in stile neocinquecentesco: una figura femminile, allegoria della Rassegnazione, ha una grande croce alle spalle, contornata dalla Parabola della vita umana.

A pochi passi ecco la tomba di Paolo Cattani, opera di un precoce Giuseppe Rizzoli (appena ventiseienne): un monticello di pietra sul quale si erge la Croce ed ai cui piedi Maria si abbandona addolorata.

Giovanni Strazza crea l’Angelo della resurrezione o del silenzio, per la tomba di Giovanni Mazzacurati (o Mazzacorati) che divide rigorosamente in base al sesso i marchesi e le marchese della nobile famiglia.

E che dire della tomba che Giovanni Putti ha eseguito per Maria Caterina Isabella Barbieri, vedova di Gaetano Mattioli, violinista, direttore d’orchestra e compositore (che studiò pure in quel di Parma): tre belle statue, allegorie di fede, carità e prudenza (di certo manca la modestia) circondano la tomba dove occupa la scena il medaglione del volto della sola Barbieri, che ignora completamente il povero marito.

Curiosa figura questa della Barbieri, ballerina, amante di Maximilian Friedrich von Königsegg-Rothenfels, arcivescovo di Colonia, sicuramente intraprendente e probabilmente poco orgogliosa del proprio marito.

Un grande angelo riempie la cappella delle famiglie Avogli Trotti Armandi Matteucci, qui è sepolto il professor Nicola Matteucci, docente di filosofia morale all’Alma Mater ai tempi in cui studiavo io.

Molto bella la tomba del conte Alessandro Casali, anche questa opera di Giovanni Putti: una Piangente inginocchiata e un Genio della Morte sono le figure che animano uno sfondo molto movimentato, scenografico, in stile neobarocco.

Altro personaggio che si fa notare è il generale Giovanni Luca Pallavicini, governatore di Milano per conto di Maria Teresa d’Austria, che visse gli ultimi anni proprio nella Certosa bolognese.

Mentre uomo di gran cipiglio deve essere stato il principe del Sacro Romano Impero Filippo Ercolani, personaggio arrogante e rissoso, di cui solo il busto campeggia su una colonna, ma più che sufficiente a trasmetterci il carattere poco “gustoso” del nobiluomo.

La tomba dei coniugi Golinelli (o almeno credo) attira la mia attenzione poiché è costituita da una lastra di pietra scura contornata da un bordo più chiaro con le impronte di mani e piedi nudi; a poca distanza dallo spigolo superiore sinistro vi è poi una grossa palla di materiale bianco, peccato non avere trovato maggiori informazioni.

Quella della famiglia Agnoli, opera del quasi sconosciuto Francesco Bonola (di cui risultano altre tombe in Certosa e poco altro), è una tomba in cui due figure femminili, una inginocchiata in preghiera (come una comunicanda) ed una in piedi a lei di fronte, con una ghirlanda di fiori in una mano e nell’altra uno strano cordoncino da cui pendono 4 palle.

La tomba della famiglia Putti ci ricorda che il capostipite è stato medico chirurgo ortopedico di fama mondiale; nella stessa tomba riposa Cristina Campo, traduttrice e scrittrice, convertitasi al cattolicesimo nella sua versione più conservatrice, favorevole alla messa secondo il rito di san Pio V.

Clodoveo Franchini ci tiene a ricordare che agiatezza e stima dei cittadini sono il frutto dello “studio costante dell’arte meccanico elettrica”.

Lo sguardo fiero dell’avvocato e garibaldino Aristide Venturini campeggia assieme a quello della moglie, a poca distanza dal mausoleo della famiglia Ronzani, in cui spicca Camillo Ronzani, famoso birraio di Bologna. L’opera, degli inizi del Novecento, di Pasquale Rizzoli, si compone di due figure: un uomo seduto, meditabondo, sorregge una ruota dentata, simbolo dell’industria, protetto da un angelo stante.

Un complesso in stile liberty davvero gradevole e adatto al fondatore di uno degli stabilimenti di produzione della birra più importanti di Bologna: da sempre amo la birra e pure Bologna anche se gli ultimi anni mi hanno visto gravitare più verso la splendida Milano (città che condividono il sindaco del medesimo partitaccio).

Splendida la cappella Melloni, con gruppo statuario opera sempre di Pasquale Rizzoli: la croce sovrasta un anziano sdraiato, rappresentante il dolore, che compiange i defunti.

Prolifico autore funerario, questo Pasquale Rizzoli, è lo stesso autore della statua del popolano, il bronzo che commemora le vittime dell’insurrezione dell’8 agosto 1848 che ancora campeggia all’ingresso del parco della Montagnola, mio usato percorso di quando ero giovane studente dell’Alma Mater.

Fantastica la lapide, del 1832, che ricorda Petronius Brunettus e Bartholomaeus Tassinarius, soci in mercatura aromatum, che hanno deciso di farsi anche la tomba assieme, un raro e bell’esempio di buon rapporto professionale ed umano.

Ma ecco un altro monumento degno di nota, la cappella Gregorini Bingham: qui Vincenzo Vela, un protagonista delle 5 giornate di Milano, rappresenta una donna, su alto cippo, col volto tra le mani in un atteggiamento di abbandono e struggimento interiore che dovrebbe rappresentare anche la disillusione politica dell’autore.

Di passaggio noto il volto di Giovanni Battista Comelli, grande medico (lavorò fino a 90 anni), collaboratore e collega di Giacomo Tommasini, altra autorità medica, parmigiano, cui è stato dedicato il famoso borgo ora sorvegliato da occhiuta telecamera.

Altra tomba notevole è quella, in stile neoclassico, che Giovan Battista Comi, ha voluto in memoria della moglie Carolina Baldi; a forma piramidale, una figura rappresenta l’allegoria della religione e sovrasta un angelo ed una figura chinata e coperta da un manto, a fianco di un canopo; sebbene non visibile in volto, osservando dal basso si intuisce che questa misteriosa e straziata figura è quella del marito.

Ecco quella di Paolo Aleotti, scultore, che si fa custodire da un “putto” opera sua, un ragazzo a gambe incrociate con alcuni melograni in mano.

Sempre in stile neoclassico la tomba delle famiglie Persiani e Calletti, con due personaggi (maschio e femmina) appoggiati e dolenti; identico stile connota la piramide che ricorda, tra gli altri, la piccola Virginia Mandini, morta alla tenerissima età di un anno.

Granitica e spoglia, la tomba di Guido Pini, morto precocemente, di cui non ho trovato notizie: il suo sarcofago, con gli anni di nascita e morte in numeri romani ed il solo nome e cognome esprimono un dolore sigillato ma non contenuto dallo spessore delle pareti del sarcofago.

Tra le tante tombe quasi anonime mi imbatto in una che non avrei immaginato (la mia ignoranza…), è quella di Dino Grandi, il gerarca fascista che propose il famoso ordine del giorno al Gran Consiglio: era il 25 luglio 1943 quando l’approvazione dell’ordine del giorno Grandi provocò la caduta del regime fascista.

Decisamente meno sobrio è il ritratto di Maria Barberini Duglioli, nipote di Urbano VIII, opera di Giuseppe Giorgetti e copia di un originale oggi al Louvre frutto delle straordinarie mani del mio amatissimo Gian Lorenzo Bernini in collaborazione col suo collaboratore Giuliano Finelli.

La povera Maria morì di parto all’età di 22 anni, seguita a breve dal marito: di lei resta, a Bologna, solo un busto in marmo, oggetto di illustri visite nel corso dell’Ottocento, magra consolazione.

Altro busto, o meglio protome, di interesse è quello di Cesare Bianchetti, un bolognese ricco, colto e devoto che si dedicò all’istruzione cristiana del popolo secondo i dettami della riforma tridentina e l’ispirazione dei seguaci di san Filippo Neri.

Nonostante l’inclinazione alla vita religiosa, essendo unico erede di famiglia, venne costretto a sposarsi, non ancora ventenne con la nipote di Alessandro Gambalunga, il fondatore dell’omonima biblioteca in quel di Rimini (ancora una volta emerge come sia piccolo il mondo).

Mi capita di notare una tomba, semplice semplice, connotata dal viso di un giovane con indosso un casco: qui riposa Bruno Deserti, giovane vittima di un incidente durante una simulazione delle 24 ore di Le Mans in quel di Monza: il premio in palio, un posto nella squadra di Enzo Ferrari per la gara originale, prevista nel giugno successivo. A 23 anni la Curva Grande del circuito di Monza gli fu fatale.

Non ho trovato nulla che mi racconti della curiosa tomba di Anna Tamba, interrata, in esterno, con sovrastante una struttura di vari parallelepipedi, davvero curiosa.

Un’altra strana tomba, che mi ricorda un nastro trasportatore, è seguita da quella, ancora una volta espressione di un dolore straziante, di Ermanno Lodi, morto a 7 anni.

Alfonso Borghesani realizza la tomba per le famiglie Dal Monte Gardini, un bell’esempio di stile liberty in cui mescola con sapienza materiali diversi, dal bronzo al mosaico; la tomba è incentrata sulla figura della committente Assunta Dal Monte, presumo ostetrica visto che si parla di nascite nell’epigrafe ed il monumento rappresenta una donna con un bambino in braccio e, sullo sfondo, un gruppo di pargoli con fiori, leprotti e colombi.

La più curiosa tomba del cimitero è quella dell’avvocato Roberto Pietro Mellini, morto nel 1950; non la fattura del triste sepolcro ma l’epigrafe, mi ha folgorato, perché normalmente non si leggono frasi di siffatto tenore, il che racconta dell’esasperazione e solitudine dello sfortunato professionista: “L’iniquità di amici – l’ingratitudine di beneficati – l’insufficiente giustizia furono il mio calvario …”

Il povero avvocato eternizza la condanna di tutti coloro che lo hanno deluso.

Bella la tomba in stile liberty di Guido Bonora, con le tre Marie “contenute” in un grande semicerchio; a poca distanza riposa qualcuno che ha voluto un albero i cui rami secchi rimandano all’aridità della morte; guardando quei rami bronzei, eternamente destinati all’aridità, mi veniva in mente la celebre poesia di Giosuè Carducci, “Pianto antico”.

Accanto, il busto di Leone Pesci, bolognese, chimico insigne e rettore dell’Università mentre poco oltre la famiglia Vegetti si affida ad una dolente velata che contempla una clessidra.

Ora l’attenzione scivola sul sarcofago molto medioevaleggiante di Ennio Gnudi, sindacalista, sindaco (anche se per pochi momenti) di Bologna, mai insediatosi a causa della “Strage di palazzo d’Accursio” che, a onor di cronaca, vide coinvolti quelli che, ai tempi, si chiamavano vigili urbani, sciolti con l’accusa (poi archiviata) di avere causato la morte di una guardia regia.

Il sarcofago, pagato dal sindacato dei ferrovieri, opera dello scultore Farpi Vignoli è curioso perché i portatori rappresentano le varie categorie sociali che sono state difese dal sindacalista Gnudi, evidentemente molto attivo.

Pietro Malmusi, invece, era un imprenditore dell’industria stearinica e saponaria che aveva portato prestigio al paese e lavoro a molti operai.

Notevole la cappella Rusconi Camerini, ove una donna col capo aureolato ed un pastorale patriarcale, ha ai lati due figure sedute, allegorie di non chiara identificazione; altra cappella meritevole di attenzione è quella con la tomba di Emma Romagnoli dei conti Barbaran: un angelo accompagna in cielo una donna mentre, sul lato opposto, due protomi, probabilmente dei genitori, elegantemente vestiti, sovrastano un fanciullo seduto su alti cuscini.

Decisamente più sobria la lapide del pittore Andrea Besteghi così come la tomba di un consigliere di cassazione mentre la famiglia Borsari sostiene che ciò che l’amore ha unito nemmeno la morte potrà separare.

Bello il busto del direttore d’orchestra Rodolfo Ferrari e curioso il monumento della famiglia Zironi dove si nota un ragazzo accovacciato ai piedi di una figura femminile che si slancia verso il cielo impugnando un caduceo, allusione massonica o che altro?

Non ho trovato notizie su Ettore Trentini ma la tomba commissionata a Pasquale Rizzoli lo rende una figura famosa tra i dimoranti in Certosa: notevole, infatti, è l’angelo che si china a raccogliere il fiore di un albero spezzato, chiaro indice di una morte precoce, presumo della moglie, rappresentata in busto, sopra l’albero stesso.

 Silverio Montaguti è l’autore di un’altra tomba monumentale, quella della famiglia Riguzzi, tre imponenti figure rappresentanti valori laici: il commercio e il lavoro, si tengono per mano ad indicare la loro armonia, fanno da sfondo alla maternità, donna con in braccio un bambino in primo piano.

La famiglia Veronesi sceglie, invece, un angelo, a protezione del sarcofago mentre la famiglia Modoni ha una figura femminile distesa in contemplazione della croce.

Paolo Atti, self made man nel campo dell’industria alimentare, riceve dai suoi famigliari un monumento in cui una donna, l’agricoltura, un uomo con la pala da fornaio ed un’altra donna, fanno da corona al busto al fondatore della ditta.

Un angelo molto klimtiano veglia sul riposo della famiglia di Ciro Magagnoli mentre la modestia di Sebastiano Zavaglia viene messa a dura prova dagli elogi fatti scolpire sulla lapide da moglie e fratelli.

Nel sacrario dei caduti della Grande Guerra spicca, in solitudine, il sarcofago di Ugo Bassi, sacerdote amico di Giuseppe Garibaldi (omnes peccavimus!).

Eccomi davanti alla tomba di Fatima Miris, nome d’arte della contessa d’Arco, celebre attrice e trasformista.

Del generale Giuseppe Doletti ho trovato notizie interessanti: originario di Leonforte, provincia di Enna, figlio non riconosciuto di un medico e della di lui cameriera, distintosi per l’abilità sul campo nella campagna d’Africa del 1896, venne ammesso all’Accademia di Modena, ne uscì ufficiale, fece carriera (studiando, tra l’altro, la conservazione degli alimenti col freddo) fino ad essere comandante della 49a Divisione (guarda le coincidenze, denominata Parma) e nominato generale dal generale Diaz.

Raggiunta la meritata fama, il padre colto da tanto giusto quanto tardivo rimorso, si offrì di riconoscerlo e quindi dargli il suo cognome ma tale offerta venne ricusata (sacrosanta decisione a mio parere) dall’alto ufficiale che, da buon militare, per il riposo eterno ha scelto l’essenziale, il suo busto ed il nome.

Armando Minguzzi è l’autore del monumento ad Olindo Raggi e Amedeo Ruggeri, due motociclisti deceduti “sul campo”: la Pietà depone nel sepolcro il corpo di Olindo Raggi mentre, ai lati, motociclisti e ragazze con mazzi di fiori celebrano il prode.

La sottoscrizione per l’edificazione del monumento vide la partecipazione di Benito Mussolini e Amedeo Ruggeri che offre il premio di una sua vittoria; pochi anni dopo lo stesso Ruggeri andrà a riposare nel medesimo sepolcro, dopo aver perso la vita durante un tentativo di superare il record di velocità con una Maserati.

Questo monumento mi ricorda il famoso “Memento audere semper” del Vittoriale: era quella, l’epoca del vivere pericolosamente, dell’esaltazione della velocità, del motore, del progresso meravigliosamente tradotti in opere d’arte dai futuristi.

Maria Beatrice Comi lascia la vita a 17 anni, ricordata in una bella tomba in stile liberty; poco distante spicca l’opera di Mario Sarto, la tomba Marangoni, un bel connubio tra bronzo e mosaico.

Mi stupisco, infine, di incontrare la tomba di un insigne prelato: la mancanza di tombe di alti dignitari della chiesa mi aveva stupito fino alla scoperta di questa semplice lapide, quella di Vittorio Amedeo Ranuzzi de’ Bianchi, cardinale originario di Bologna, di nobilissimi natali e molto stimato nell’esercizio del suo ministero.

Dal sacro al profano, ecco il busto di Alfieri Maserati, pilota e fondatore dell’omonima casa automobilistica; ancora in busto Gianluigi Melegari, morto precocemente all’età di 35 anni, sinteticamente orgoglioso di essere fascista.

Risale al 1940 un’altra bella opera di Pasquale Rizzoli, il monumento Generali; di Filippo Generali non ho trovato nulla online quindi l’unica informazione che ho la ricavo dalla tomba: morto per un’incursione aerea era sicuramente appassionato di agricoltura visto che lo scultore su uno sfondo di tessere di mosaico in ceramica rappresenta il busto di Dio padre ed un contadino intento a vangare la terra.

Il riferimento, a mio parere, è biblico anche se ho letto che si tratterebbe di un’allegoria dell’agricoltura.

Ora mi imbatto nella sobria dimora eterna di Antonio Carranti che, se non esagera con gli orpelli, non si risparmia coi titoli: nobiluomo, avvocato, commendatore, Podestà di Bologna, Patrizio imolese.

Di Michele Pala non ho scoperto nulla se non che era un carabiniere reale, vittima del dovere il 31/05/1931, e come tale immortalato nella lapide a lui dedicata.

 Due figure femminili, molto diverse tra loro, vegliano sulle tombe di Giancarlo Bassi, morto prematuramente nel 1945, e quella della famiglia di Alessandro Osti: se la prima sembra quasi un Angelo, la seconda, velata e coi capelli lunghi, pare un’invasata, distrutta dal dolore.

Eccomi davanti alla tomba Magnani, un’altra splendida opera di Pasquale Rizzoli: qui un angelo reca in cielo il defunto, gigli e rose decorano la scena e sullo sfondo il mosaico, che digrada dal blu scuro all’azzurro, sottolinea il moto ascensionale delle due figure.

Altra opera notevole di Rizzoli è la tomba Pizzoli, anche questa in stile Liberty e conosciuta come Genio del fuoco o Allegoria del fosforo: il protagonista è un uomo nudo che ricorda molto i prigioni di Michelangelo, semi disteso e avvolto in un intreccio di rami di melograno, intento a contemplare con gusto le fiamme che gli lambiscono i piedi; accendini, acciarino, fiammiferi ricordano l’attività professionale della famiglia, la valorizzazione del fosforo per l’illuminazione.

Lo sfortunato protagonista di questa impresa non ebbe successo; toccò alla moglie allevare i figli, sistemare i conti dell’azienda, trasmetterla alla prole e, solo allora, vederla finalmente prospera.

Ma subito un’altra tomba interessante, quella di Enrico Guizzardi, commerciante, appassionato d’arte, grande amico del pittore bolognese Luigi Serra; l’opera, di Giuseppe Romagnoli, rappresenta una donna velata che lascia cadere a terra alcune rose, mentre, sul lato opposto, sembra uscire dal marmo, quasi come un incompiuto michelangiolesco, il dio Mercurio, protettore dei commercianti.

Ritorniamo subito a Rizzoli col monumento a Pompeo Baroni: qui il genio dell’agricoltura, in posa michelangiolesca, osserva il lavoro dei campi che produce frutto come recita il motto, citazione virgiliana dalle Georgiche, “Fundit humo facilem victum iustissima tellus” (La terra giustissima offre dal suolo facile sostentamento).

Accanto a questo ecco un’altra opera del prolifico Rizzoli, è il monumento Zanetti-Cassinelli: qui un imponente gruppo bronzeo, tre figure dolenti in un circolo triangolare piramidale spiccano contro uno sfondo di mosaico azzurro chiaro con croce dorata.

Mi imbatto poi in un altro bronzo, con l’angelo che accoglie l’anima da trasportare in cielo ma anche un uomo, seminudo ed affranto, sovrastato dalla protome marmorea di una signora dai tratti che rivelano una grande forza di carattere.

Curioso il cippo Oppi dove una bambina porge un fiore in direzione del busto del defunto, bella opera di Pietro Veronesi.

Ma tornando all’interno, eccomi davanti al monumento Malvezzi Angelelli, opera di Lorenzo Bartolini e intitolata “Pallade e il Genio della Gloria”: curiosa storia di quest’opera che, in precedenza, avrebbe dovuto rappresentare  Elisa Bonaparte, moglie di tal Felice Baciocchi, nelle vesti della “Magnanimità che abbraccia il suo destino”.

Durante la lavorazione emerse una venatura nera proprio in corrispondenza del viso della Granduchessa di Toscana; da qui nacque una disputa col vedovo poiché lo scultore si era offerto di scolpire una nuova opera ma addebitando il costo del marmo al committente che, al contrario, riteneva che la spesa dovesse gravare sull’artista in riconoscenza della nomina a direttore della Scuola di Scultura dell’Accademia di Belle Arti di Carrara.

Disputa cessata con la morte del Baciocchi che comportò un nuovo monumento dedicato ad entrambi i coniugi; divenuta inutile, la statua contestata venne venduta al marchese Massimiliano Malvezzi Angelelli.

Giovanni Putti crea la splendida ed inquietante tomba di Petronio Buratti: l’Allegoria del Tempo si rivela in un angelo della morte con falce e clessidra, una barba fluente ed un paio d’ali che sembrano minacciare di spiccare il volo.

L’allegoria del tempo piaceva, evidentemente, visto che anche nel monumento di Anna Maria e Giacchino Ferreri compare l’angelo con falce e clessidra d’ordinanza, ma stavolta, forse a contemperarne il tremendo aspetto, altre due figure e una coppia di leoni completano il quadro.

Un grande angelo in bronzo siede sulla lastra tombale delle famiglie Boschi e Mummolo, che ne spiegano la presenza, citando l’episodio evangelico dell’angelo che si siede, dopo averla rovesciata, sulla lastra tombale del sepolcro di Cristo.

Notevole la tomba di Edoardo Weber, industriale e progettista, scomparso il 15 maggio 1945, prelevato da tre partigiani a causa delle sue simpatie per la Repubblica Sociale di Salò; il corpo non venne mai ritrovato per cui quello della Certosa è un cenotafio opera dello scultore Venanzio Baccilieri che ha riprodotto alcuni episodi dell’attività in fabbrica con tanto di tecnici ed operai che discutono del lavoro.

Dopo la visita della chiesa, sommaria a causa della celebrazione in corso, proseguo la visita fin quasi all’orario di chiusura, così ecco una notevole pietà ai cui lati spiccano le protomi dei proprietari della famiglia Grandi poi la splendida lapide di una famiglia, esemplare nella sua semplicità, fatta di tessere rettangolari che rendono la prospettiva di un corridoio che conduce ad un’alta croce, una versione moderna di opus sectile, tanto essenziale quanto suggestiva, con rimandi alla prospettiva rinascimentale.

Altra interessante tomba è quella di Gida Rossi, maestra di vita e di storia, che ebbe “in Cristo la sua fede, nella Patria il suo ideale, dell’Italia Romana interpretò sempre lo spirito, ne cantò le glorie, ne predisse il trionfo”: il Comune le dedicò una lapide in memoria di un esempio fulgido, cui aggiungerei io di applicazione del teorema “Dio, patria, famiglia” (anche se nel suo caso la famiglia era costituita dai mutilati combattenti nel “sacro nome d’Italia”).

Oggi chi la considererebbe? Com’è caduca la gloria politica!

Altra tomba notevole è quella di Cesare Germani: non trovo notizie su di lui ma la tomba, in mosaico azzurro con croce da cui parte un fascio di luce con affiancati Mercurio ed una donna non meglio identificata, è degna di nota; sicuramente si tratta di un imprenditore visto l’esergo “vitam labore ac opere duxit”.

Eccomi ad un’altra splendida tomba, quella che Carlo Monari ha scolpito per Enea Cocchi, deceduto a 18 anni: il ragazzo è mollemente seduto su una poltrona, con un libro in mano, rappresentato con abiti molto moderni, quasi una sfida al triste destino che lo ha colpito.

Ma dato che le tombe sono come le ciliegie, una tira l’altra, eccomi alla tomba Simoli, opera di Tullo Golfarelli.

Gaetano Simoli (ritratto in età avanzata con la moglie Liberata Morini, in un medaglione sul basamento) è rappresentato come un fabbro – egli era il fabbro comunale -in un momento di riposo.

Golfarelli ne esalta le virtù, secondo la poetica pascoliana in voga, rappresentando un bell’uomo, sereno e fiero del suo lavoro di operaio, che non sembra per nulla in “soggezione” di fronte a ben più titolati defunti.

Per permettersi questo monumento il buon Simoli ha risparmiato tutta una vita, era il suo sogno, che non mi permetto di criticare ma che, certo, non condivido.

Dopo il fabbro l’editore, la tomba della famiglia Zanichelli vede il fondatore dell’omonima casa editrice, quella che ha pubblicato le opere di Carducci, rappresentato in un bel busto sotto il quale è disposta una disordinata pila di libri.

Sui libri spicca lo stemma della casa editrice, un tempo sorretto, a sinistra, da un puttino dolente che mano ignota ha pensato bene di asportare (insomma se lo sono fregati, come direbbero a Roma).

A poca distanza la moglie dedica a Pietro Agostini un affettuoso monumento; pochissimi sono gli elementi per ricavare informazioni, ma una forbice mi fa immaginare che fosse quel Pietro Agostini, che fu il più famoso sarto cittadino a inizio Ottocento.

Ma eccomi alla tomba del cavalier Angelo Minghetti, opera di Alessandro Massarenti; questo Minghetti vive una vita assai intensa e, per certi tratti avventurosa (ad esempio quando partecipa all’insurrezione dell’VIII agosto 1848, restando ferito) ma coronata di grande successo e soddisfazione.

Poi transito di fronte ad un bel Cristo bronzeo, buon pastore, per passare al monumento Montanari: qui un angioletto che regge un caduceo sovrasta la tomba ai cui piedi si trova una donna, tristemente appoggiata su un mazzo di fiori.

Il viso è sconvolto, quasi da alienata, i capelli scarmigliati scendono quasi a fondersi coi fiori; c’è chi sostiene che l’autore, Diego Sarti, vi abbia impresso quella sensualità che, unita alla morte, costituirà un tratto tipico del decadentismo: a me non pare, la donna, col volto davvero da alienata, non mi pare proprio sensuale, ma parere personale.

Altra tomba che mi ha colpito rappresenta una ragazzina, bambina direi, riccamente vestita, siamo a fine Ottocento inizi Novecento, addormentata su una poltrona imbottita.

Il tempo fugge e con lui le tante tombe da vedere: mentre la signora Maria Osti, inginocchiata, recita il rosario, in attesa della resurrezione assieme alle due figlie che le hanno dedicato il monumento, la signora Carolina Mignani, vedova di Cesare Beau, ricco commerciante, si appoggia al figlioletto Augusto perché la sostenga.

L’opera, di Salvino Salvini, rappresenta nella parte superiore il busto del defunto, col volto severo, in quella sottostante, con grande accuratezza di dettagli, madre e figlio a fianco di un candelabro con una torcia accesa.

Ma ecco un’altra tomba dove la rappresentazione di una scena così piena di vitalità come l’allattamento di un neonato, fa stridente contrasto col clima del cimitero: una madre, prosperosa come lo sono le puerpere, sta allattando al seno, scoperto totalmente, un neonato mentre col braccio sinistro trattiene un altro bambino, in piedi, che fissa dritto l’osservatore.

Ma subito viene il Monumento dedicato a Raffaele Bisteghi, realizzato da Enrico Barberi; la prima curiosità è che il monumento è stato realizzato su esplicito mandato del de cuius, che ha impegnato gli eredi a realizzargli un monumento funebre con spesa non minore di 12.000 lire (che nel 1895 erano una bella somma); la seconda è relativa all’impronta verista dell’opera, con la rappresentazione dell’agonia del defunto, rappresentato senza edulcorazione alcuna, nello straziante momento del trapasso, con l’angelo al suo fianco pronto ad accoglierne l’anima, in evidente contrasto con la figura della vedova, rappresentata con abiti fuori moda e sicuramente ringiovanita ed abbellita oltre che in una posa più da comunicanda che da partecipe del supremo momento della morte del coniuge.

Sobria e solenne, invece, è la tomba di Camillo Casarini, sindaco di Bologna, la cui effige è opera dello stesso Salvini della tomba Beau: politico anticlericale, fondatore del partito degli azzurri, dimessosi dalla carica a seguito di uno scandalo in cui venne coinvolto ma da cui uscì scagionato (nihil sub sole novi).

Sempre di mano di Salvini è il cenotafio di Francesco Rizzoli, celeberrimo medico chirurgo cui Bologna ha dedicato anche una delle vie centrali della città e il ritratto di Rodolfo Audinot, deputato e senatore del regno, dotato di “ingegnosa facondia nei parlamenti”, qualità che non so quanto oggi sarebbe apprezzata.

Una lapide poggiata ad una colonna ricorda la figura dell’ingegnere e architetto Antonio Zannoni, scopritore della Bologna etrusca sotto la Certosa e primo progettista della direttissima Bologna Firenze Roma.

Seguono il volto in bronzo di un ragazzino, ed un altro di nome Andrea quindi arrivo alla tomba, opera di Carlo Parmeggiani, dell’esploratore Pellegrino Matteucci, intrepido, come si dice degli esploratori degni di tal nome, morto trentenne a causa di febbri contratte durante la traversata dell’Africa dal Mar Rosso alla foce del fiume Niger.

La tomba si nota per via di una pelle di animale su cui è disteso il corpo dello sventurato avventuriero: oggi gli animalisti sbranerebbero chi osasse vantare una pelle di animale esotico come giaciglio, ma ai tempi l’Africa era un continente misterioso, da esplorare con ardite spedizioni ed una pelle di animale esotico un souvenir da esibire per l’invidia dei sedentari borghesucci.

Una curiosa tomba è quella della famiglia Codivilla, una semplice lapide sormontata dal busto della povera Anna Pedrazzi Codivilla, deceduta nel 1886 a causa dell’”asiatico morbo”, cioè il colera, a “soli 49” anni: perché curiosa vi chiederete, dopo centinaia di tombe che si distinguono per i diversi stili, materiali e decorazioni? Il motivo è semplice: la povera defunta, rappresentata velata, con abito che ricorda quello di una contadina, pur avendo 49 anni, ne dimostra almeno 70, bronzea testimonianza di quanto sia cambiata la vita (alimentazione in primis) in poco più di un secolo.

La pubblicità oggi sostiene che i 50 sono i nuovi 30 e levigatissime ed ancora attraenti signore deliziano le papille erotiche di aitanti cinquantenni: stupefacente se mi metto a ricordare i miei nonni e la mia infanzia, quando avere 50 anni era sinonimo di vecchiaia, il che mi rammenta che sono quasi un fossile che testimonia il passaggio tra due ere.

Curiosa anche la tomba del commendator Luigi Ballarini; in questo caso la curiosità nasce dal fatto che nessuno vi è sepolto, nonostante il busto del commendatore; di questo commerciante si conoscono scarne notizie relative a traffici poco chiari, alla fornitura di gas per illuminazione puzzolente e di scarsa qualità, ad un investimento andato male sulla ferrovia Genova La Spezia e ad un fallimento, nulla che spieghi la tomba vuota.

Mi sono accorto di avere saltato, cioè non visto svariate tombe che avrebbero meritato per cui sarà bene che ritorni nella cara Bologna.

Chiudo questo post con una considerazione: è un bel po’ di tempo che non scrivo (né so spiegarmi il motivo) e non mi è mai successo di pubblicare un articolo così lungo, probabilmente anzi sicuramente prolisso.

Chi avrà la pazienza e la compiacenza di leggerlo spero vi trovi un semplice racconto di un pomeriggio a passeggio, un modo inconsueto, forse, di fare una vasca, come si usa dire.

Devo segnalare con gratitudine il sito www.storiaememoriadibologna.it da cui ho attinto numerosissime informazioni e che permette di meglio godere di ciò che si incontra camminando per la Certosa.

Bologna, 12 settembre 2021 memoria del Santissimo Nome di Maria

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