La Fondazione Magnani Rocca è sempre occasione di qualche scoperta o stimolo; durante la visita ad una temporanea dedicata al Surrealismo, ho scoperto un’artista, Leonor Fini che, manco a dirlo, ignoravo totalmente: quando ho scoperto che a Palazzo Reale, in quel di Milano, c’era un’esposizione a lei dedicata, ho deciso che non avrei potuto perderla.
Ho approfittato di uno splendido simposio dedicato all’intelligenza artificiale, organizzato dalla Società amici del pensiero, per tornare nel capoluogo lombardo per poi trattenermi anche il pomeriggio proprio per visitare questa mostra.
L’occasione era ghiotta anche per rivedere il giovane amico asturiano col quale avevo già condiviso le due esposizioni precedenti e così è stato: prima un corroborante panino con la frittata, poi ecco che Palazzo Reale ha aperto le sue porte a questi due baldi visitatori.
La prima nota, che nulla ha a che vedere le opere di questa artista, riguarda il cognome: non so il perché ma Fini proprio non mi entra in testa e, sin da subito, ho iniziato a parlarne e scriverne col cognome Frini.
Un’esperienza con luci e ombre: devo ammettere che mi aspettavo qualcosa di diverso, non tutti i quadri mi sono piaciuti, alcuni sicuramente sì, altri molto molto meno.
Di sicuro fu una donna non conformista, sebbene questa non sia necessariamente una qualità positiva; dalla biografia ho anche scoperto un inquietante parallelismo: i genitori di questa bambina divorziarono in modo conflittuale.
Il padre, che desiderava tenerla con sé, provò a rapirla ma il progetto fallì grazie allo stratagemma adottato dalla mamma e dai famigliari, il travestimento.
Separazione conflittuale e rapimento me l’hanno fatta sentire vicina: io pure, quasi ex pargoletto, ho vissuto i conflitti – durissimi – tra i miei genitori e fui protagonista di un episodio che ho sempre chiamato “rapimento”: giuridicamente non lo era ma io vissi molto male quei due giorni in compagnia di mio padre e dei nonni paterni.
Tutto si concluse nel migliore dei modi grazie alla mia incrollabile determinazione che si tradusse nella risibile minaccia di suicidarmi se non avessero soddisfatto il mio desiderio; suicidio da operetta perché la minaccia consisteva nel lanciarmi dalla finestra del bagno ove mi ero rinchiuso.
Ma le analogie finiscono qui.
Veniamo alle opere: le molte figure femminili, spesso ritratte sotto forma di sfinge, sono molto inquietanti, alcune tecnicamente apprezzabili ma tutte molto poco rassicuranti; impossibile non ricordare la più famosa sfinge che la cultura occidentale, di origine greca, ci ha tramandato, una figura mostruosa e malevola, causa di danni e distruzione per l’uomo, Edipo ne sa qualcosa.
Leonor Fini sicuramente ha dovuto farsi strada in un mondo patriarcale, quasi totalmente riservato agli uomini, e credo ci sia riuscita interpretando un ruolo di rottura: oltre alla donna sfinge in numerose versioni, la ritrattistica di uomini nudi – non nelle pose eroiche della statuaria classica – o personaggi comunque che trasmettono un senso di angoscia quale, ad esempio L’angelo dell’anatomia.
L’ombrello è un’altra opera che desta inquietudine: l’oggetto, rotto e dunque inutilizzabile, è dunque un ombrello che non è un ombrello ma che sembra essere soltanto pronto per la spazzatura.
Poi ci sono opere che mi convincono in pieno: l’Autoritratto con Kot e Sergio l’ho trovato un’opera splendida che suscita suggestioni, risveglia reminiscenze della ritrattistica romana, in particolare di quella cimiteriale delle mummie dei romani sepolti in Egitto (credo di aver visto ritratti struggenti in qualche museo di Berlino).
Narciso impareggiabile è un’altra creazione interessantissima: il protagonista si specchia, secondo tradizione, ma si potrebbe aggiungere finalmente, la bellezza dell’uomo cede il passo all’inquietudine, Narciso non è per nulla un personaggio attraente.
Altra opera degna di nota è La zattera: due donne, una vestita in modo particolarmente elegante ed elaborato, ma anche la seconda non è trascurata, siedono una accanto all’altra, a seno quasi del tutto scoperto, sopra una base in legno che tutto si direbbe meno che una zattera, sembra piuttosto un artificio costruito in studi, cui poi è stato aggiunto un mare così calmo che la bonaccia dell’Adriatico nella mia Rimini sembra un fortunale al confronto; ai loro piedi alcuni ninnoli che non ho capito se fossero bottoni o gioielli.
Quest’ultimo mi è parso, per quanto strano possa sembrare, un richiamo (blasfemo? Non saprei) alla Vanitas o alla Maddalena penitente di tante opere del Seicento.
Costumista, scenografa, la mostra documenta tutti gli ambiti in cui Leonor Fini si è cimentata, quindi una mostra decisamente interessante anche se non sono stato in grado di apprezzare tutto quel che ho visto, ma è un limite mio.
Milano, 15 marzo 2025 memoria di san Zaccaria, papa