Consuetudine e gita alla cascata del Varone

La cascata del Varone è un amoenus locus che si trova nel comune di Tenno, in provincia di Trento a breve distanza da Riva del Garda.

Da qualche anno a questa parte ho l’abitudine di concedermi, in questo periodo, una breve gita o escursione, possibilmente all’estero.

Quest’anno lo stato delle mie finanze e i postumi dell’intervento all’orecchio sconsigliavano l’uscita dai confini nazionali ed allora ho deciso di andare in questa località alla quale sono legato da un vincolo di memoria risalente al secolo scorso.

Uno dei rari ricordi della mia infanzia, infatti, è legato ad una caverna dentro la quale una fitta nebbiolina ed un cupo rumore la facevano da padrone; quell’ambiente altro non era che la cascata del Varone ed io avevo un’età compresa tra i sei e i nove anni.

Di quella gita ricordo, forse, l’auto, verde scuro, di mio babbo, la presenza dei nonni, la sosta in un’area attrezzata (o in un campo) per mangiare il pollo arrosto seduti attorno ad un tavolo richiudibile, di quelli che andavano di moda ai tempi.

Ignoro se ci fosse anche mio zio Giorgio, prematuramente scomparso.

Questo ricordo non mi ha mai lasciato, il che è strano per uno che fatica a ricordare quel che accadeva ai tempi del liceo.

La scelta di tornare a visitare quel luogo era quasi obbligata, a distanza di tanto tempo e, lo anticipo, soddisfacente.

Partito senza affanni di buon mattino, con una pausa autostradale per un caffè costato 1,20 €, un furto con destrezza, prima di arrivare alla cascata del Varone mi sono imbattuto in un santuario, il convento della Madonna delle Grazie, a pochi km da Riva del Garda.

Mi sono fermato? ovvio che sì: una breve visita e via…

Arrivo infine alla meta; parcheggio poco distante (i parcheggi sono insufficienti a dire il vero, ma almeno gratuiti) ed eccomi all’ingresso: 5,50 € il costo del biglietto, tutto sommato equo, non mi lamento.

La cascata del Varone è davanti a me, posso scegliere se entrare nella grotta inferiore o salire per quella superiore; propendo per la prima ed ecco che in pochi passi arrivo in questo antro dove l’acqua nebulizzata mi ricorda le terme, sebbene la temperatura qui non sia esattamente termale.

Ancora poche falcate ed eccomi davanti all’acqua roboante, impetuosa, irrefrenabile che scende rumorosa.

Gabriele d’Annunzio firmò il suo passaggio definendosi “L’uomo del turbine e dell’acqua“, ecco una delle poche cose che potrei condividere.

La forza dirompente, la freschezza, il cupo rimbombo sono davvero poesia, un’esperienza “terribilis”, inquietante ed eccitante nel contempo.

Del tutto inumidito dalle gocce in sospensione, me ne ritorno alla luce del sole che mi asciuga così velocemente da farmi trovare già accaldato quando arrivo all’ingresso della grotta superiore.

Anche qui l’effetto è bellissimo, tremebondo, da inferno dantesco ma, ahimè, l’acrofobia la vince sull’entusiasmo e devo muovermi con estrema attenzione.

La situazione di umidità, l’acrofobia, l’illuminazione, tutto complotta per impedirmi di fotografare con efficacia la cascata che, incredibilmente, sfugge ai miei soliti tentativi di immortalare ogni cosa che visito con centinaia di foto.

Tecnicamente ho scoperto che si tratta non di una vera e propria cascata ma di una forra, cioè di una gola scavata dall’erosione delle acque che scorrono nel torrente Magnone dal lago di Tenno fino a quello di Garda; il parco venne inaugurato il 20 giugno 1874 alla presenza di ben due teste coronate, monarchie alla quali non ha portato fortuna evidentemente, il principe Nicola di Montenegro e Giovanni re di Sassonia.

Terminata la visita alla cascata mi dirigo verso la frazione di Canale di Tenno, borgo medioevale praticamente intatto o quasi. Prima di arrivarci scorgo la chiesa di san Zeno o san Zenone a Cologna ed è ovvio che una sosta ci scappi in automatico. Il santo eponimo è il protettore di Verona forse in ricordo della dominazione scaligera della seconda metà del Trecento. Interessante per gli affreschi di datazione tra Tre e Quattrocento, con le storie di santa Margherita.

La visita non è male anche se non mi entusiasma; da questa frazione un sentiero conduce al lago di Tenno, questo sì un autentico gioiellino, le cui acque tersissime e azzurre mi affascinano sin da quando inizio a scorgerle a distanza.

lago di Tenno
lago di Tenno

Il lago è piccolo, con un isolotto centrale che lo rende ancor più caratteristico: mi fa pensare a quelle isolette dei pirati o dei naufraghi con una sola palma dove si svolgono tanti dialoghi o monologhi surreali nelle vignette.

Mi avvicino a sfiorare l’acqua dove nugoli di simpatici pesciolini nuotano tranquilli poi mi avvio al chiosco poco distante dove mi attende un pranzo luculliano: ponendo in pausa la ferrea dieta mi concedo una birra media (potrei solo una birra piccola) ed un panino ai multicereali con verdure grigliate, il tutto per la bellezza di 8,00 €, che non sarebbe male se non fosse che l’attesa dura mezz’ora.

pranzo sul lago di Tenno
pranzo sul lago di Tenno

Inganno l’attesa ascoltano il dialogo tra due giovanotti inguardabili, entrambi pluritatuati e vagamente disgustosi, uno, inoltre, aveva i lobi delle orecchie perforati da quegli anelloni neri che non so meglio descrivere ma che lasciavano questi due enormi buchi davvero esteticamente osceni, mentre l’altro aveva una chioma crespa e vagamente attorcigliata da rasta che, ancora una volta offende il buongusto.

I due giovanotti discettavano di stipendi, col rasta che consigliava l’altro sull’importo orario da chiedere per la professione di aiuto cuoco. Egli sosteneva che, essendo un lavoro difficile, doveva essere ben pagato, almeno 12 € orarie visto che lui, quando gli capita di fare il giardiniere, ne chiede 10, in nero.

Discorso palese e chiaro, sul lavoro nero, come se fosse la normalità, e siamo nel civilissimo Trentino.

Me ne torno in quel di Canale per visitare il Monumento alle Vicinie, un luogo che ricorda il vecchio (?) sistema di gestione della cosa pubblica (cioè delle proprietà che hanno perso i titolari a causa della peste) stabilito dai capifamiglia della zona.

Decido di fare un salto a Rovereto, che non mi sembra lontanissima; lungo la strada mi fermo ad acquistare due cassettine di ciliegie, una delle quali finirà quasi completamente prima dell’arrivo a casa e via verso la città.

Lungo il percorso mi lascio deviare dalle indicazioni sul Sacrario Militare, che intravedo su una collina; trascuro in suo favore la famosissima campana ma non si può vedere tutto di corsa e la scelta è presto fatta.

Il parcheggio davanti all’ingresso è assolato e deserto, io solo oso avventurarmi sui gradini calcinati dal nitore di un astro che non concede tregua.

Se l’Accademia della Crusca ha approvato l’orrido petaloso penso potrebbe avallarmi il madidoso sudoso che ho inventato mentre il mio fisico si disidratava espellendo quei pochi liquidi sopravvissuti alle camminate mattutine.

L’edificio ha pianta circolare ed è sobrio e severo, oltre che deserto, come si conviene; al suo interno sono custodite le salme di 20mila soldati appartenuti agli eserciti italiano, austro-ungarico e alla Legione Cecoslovacca, la formazione che nel 1918 affiancò le armate italiane nella Battaglia del Solstizio e in quella Finale.

Troneggiano su tutto le tombe dei due “martiri” roveretani Fabio Filzi e Cesare Battisti i cui nomi, in effetti, ho visto molto ricorrenti in città, mentre al centro c’è il busto del maresciallo d’Italia Guglielmo Pecori Giraldi, comandante della I armata schierata.

Sfortunatamente era interdetta alla visita l’area con i sacelli dei caduti con iniziale la lettera F così non ho potuto vedere se vi fossero miei omonimi, che sempre cerco in simili occasioni, ma il mio cognome non è molto diffuso.

Uscito dal Sacrario mi sono diretto verso il centro città, che non è stato facile avvicinare; ho trovato fortunosamente un posto dove parcheggiare gratuitamente (pagare il parcheggio è contro la mia religione) nei pressi della stazione e, a piedi, come d’abitudine, mi sono diretto verso il centro.

Deliziosa è la piazza Rosmini come gradevole è il centro cittadino, all’apparenza disabitato ma probabilmente il caldo scoraggiava l’uscita degli autoctoni; visito un paio di chiese, tutto sommato gradevoli, una delle quali, san Marco, ha visto come arciprete, per un anno, il beato abate Antonio Rosmini.

L’ora del ritorno incombe e mi impone di rinunciare al Mart, alla campana dei caduti e al museo dedicato alla Grande Guerra, tre ottimi motivi per tornarci.

La giornata è stata del tutto soddisfacente, di quelle che piacciono a me con la novità che, una volta tanto, la meta principale non è stato un monumento, chiesa o museo che fosse, ma la cascata del Varone, uno scenario naturalistico, insomma un evento poco comune.

Ho trovato l’architettura di montagna un po’ stancante, né potrei mai vivere a ridosso di catene montuose, salvo che non vi sia un bel lago accanto. Le montagne, per quanto scenografiche e belle, sono nemiche del sole, poiché ne ritardano la salita e ne accelerano la discesa quindi non potrò mai apprezzarle fino in fondo.

Discorso diverso, però, nel caso di brevi escursioni come questa, in cui tutto è stato perfetto.

Incipit così il 53mo anno di vita.

Parma, 22 giugno 2017, memoria dei santi martiri John Fischer e Thomas More.

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