Tu sei pessimista!

Stamattina, colloquiando con una cara collega, mi sono accorto, ancora una volta, e con molta nitidezza, di una trappola linguistica, di un vero e proprio coltello puntato contro l’altro, al quale io non sono immune, come nessuno, temo, non per questo voglio considerarlo come un fatto scontato. Mi torna in mente la piazza, la piazza della patologia e la banalizzazione.

Orbene il fatto nasce da questa affermazione della collega: “tu sei un po’ pessimista”, mi sono negato a questa definizione accorgendomi che troppo spesso anch’io cado nella trappola di definire “tu sei… lui è…”, definizione metafisica, esplicitazione di un’essenza che ha la sua ripetizione, a mio parere violenta, nell’adagio di un altro collega, peraltro da me in parte stimato, che dice di sè – sedicente – “sono fatto così”. Mi è spesso venuto in mente che potrei, provocatoriamente, mettermi le dita nel naso, in pubblico e poi, perchè no, offrire qualcosa da mangiare, rispondendo candidamente alle prevedibili obiezioni degli astanti “che ci volete fare, son fatto così, lo devo fare”.

Non avevo mai pensato che il pensiero metafisico potesse avere un impatto così quotidiano e potenzialmente mortifero; se ciascuno avanzasse l’esimente dell'”essere fatto così” non sarebbe possibile nessun incontro con un altro perchè ognuno sarebbe chiuso  nel proprio mondo e la questione sociale dovrebbe diventare il trovare una cura per abbassare i livelli di “individualismo” in maniera tale da poter permettere un minimo contatto tra i consociati.

Scomparirebbe anche l’idea di pena (peraltro lo Stato non sarebbe competente a verificarne l’applicazione, anche se la pena del diritto punitivo ha pure una valenza similare) che, per assurdo, potrebbe essere un’occasione per giudicare dell’errore: “che pena vivere così”; credo di poter approfittare dell’episodio per richiamarmi all’idea di trattamento, cosicché non mi metterò le mani nel naso non per non “essere” maleducato.

La stessa collega mi riferiva di un colloquio avuto con sua figlia di 7 anni, colloquio in cui lei, adulta e laureata in legge, si lamentava con la figlia, “piccola” e disobbediente dicendole: “devi obbedirmi perchè ti ho fatto io,  sono la tua mamma, tu sei piccola quindi devi fare quello che ti dico io”, al che la bambina ha ribattuto: ” no, mi ha fatto Dio e la vita è mia”; questo breve scambio di battute mi ha fatto tornare alla mente un episodio raccontatomi da un’altra collega; protagonista, anche in questo caso un bambino, figlio di lei, dell’età di circa 5 anni, il quale, svegliandosi la notte e volendo un bicchiere d’acqua, così chiamava nel buio ” mamma … papà… qualcuno…”.

Questo secondo caso mi aiuta a comprendere un po’ meglio il famosissimo “se non ritornerete”, glosserei io, a pensare “come bambini”.

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