pensiero relativo

Stanotte un frammento di sogno: “ero con tutta la mia famiglia in giro non so dove; visitiamo un museo o una chiesa ed io devo fare da guida; inizio a parlare quando mia nipote mi critica [ma non ricordo le sue parole]; senza problemi parlo con qualcuno lì presente.”

Un sogno che parla di correzione e senza drammi: notevole.

Oggi, in compenso, ho dimenticato sul treno l’ombrello appena acquistato; dimenticanza forse dovuta alla distrazione occorsami: di fronte a me si sono accomodati due giovani, un ragazzo ed una ragazza, che si raccontavano le esperienze universitarie. Studenti, almeno uno, di antropologia, esaltavano il pensiero relativizzato.

In particolare sull’infibulazione sostenevano che è la mentalità occidentale a pensarla come una pratica di dominio sessista; in realtà, dicevano, spesso sono le donne stesse a richiederlo, donne che sanno quale sia il prezzo da pagare in caso di rifiuto, l’allontanamento dalla comunità: per loro è più importante appartenere alla comunità, cosa inconcepibile per noi occidentali. Il buon antropologo sospende il giudizio ed il ragazzo confessava di essere arrivato a sospenderlo su tutto…   Poi è passato a parlare dell’inconciliabilità tra filosofia ed antropologia, sostenendo, a ragione, che il filosofo pensa sempre “per universali”, cioè partendo dal suo pensiero individuale, teorizza soluzioni valide per tutti; al contrario l’antropologo coglie le differenze e le rispetta valorizzando il dubbio ed il pensiero relativo. Unico filosofo a dire del giovanotti che sfuggirebbe a questa logica sarebbe Kant, fulgido esempio di modestia di fronte all’inconoscibilità, almeno per lui, di alcune questioni.

La cosa più divertente però arriva alla fine quando racconta di avere un amico, “un po’ strano” ammette lui stesso, uno interessato all’alchimia, che lo ha coinvolto nell’edificazione di un tempio, sulle rive di un torrente non so bene dove.

Bella iniziativa, verrebbe da dire, se non che il tempio è edificato, a mano con pietre di fiume e sabbia, ad una divinità qualunque: non sapevo se ridere o piangere.

Mi è tornato subito in mente D’Annunzio ed il suo feticcio (il Vittoriale) ovvero a cosa non si sottomette l’uomo quando mette in congelatore il pensiero.

Devo aggiungere che nè il vate, nè il ragazzo alchimista hanno inventato nulla; seppur nella diversità dei modi, le forme restano sempre le stesse.

D’Annunzio aveva pensato all’impresa eroica, adrenalinica, al movimento; oggi si praticano sport estremi, si compiono azioni estreme senza alcun senso che non sia quello del provare il brivido della sfida. La cocaina (che usava pure il poeta),l’alcol, lo sballo, la movida, i social, i cellulari, i tablet, il jeans griffato, il tatuaggio (e chi non ne ha almeno uno oggi) non sono forse la farsa della guerra, dell’eroismo, degli abiti da gagà, delle sfide di velocità, dell’assenzio che cent’anni prima ammaliavano i giovani e non solo di allora?

Nulla di nuovo sotto il sole

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