Oggi, in treno, ho iniziato a leggere il secondo dei libri di Marco Calabresi: mi sono commosso fino alle lacrime, che sono riuscito a trattenere anche se con molta fatica; non l’ho finito però mi sono bevuto le pagine tanto che proprio non mi sono accorto del tempo trascorso.
Mi è piaciuta la delicatezza con cui ha raccontato vicissitudini tremende e non solo per la perdita del padre (fosse poco) ma anche per la criminalizzazione della sua persona, una sorta di damnatio memoriae, di chiusura in uno stereotipo, che dopo anni sembra continuare se pochi giorni fa, parlando con una persona che conosco, dichiaratamente di estrema destra, così ricordava il Commissario Calabresi: “ha provato a fare esperimenti per verificare se gli anarchici volano ma gli è andata male”.
Ho apprezzato come ha trattato una questione che poteva ridursi ad una manifestazione di rabbia o di odio; ha ridato, con pochi tratti, vita e dignità a tanti servitori di uno stato che si è dimenticato troppo spesso di chi ha avuto la vita devastata da violenti pretesi rivoluzionari. Anche la richiesta di una legge che in un qualche modo risarcisca i famigliari è raccontata con la delicatezza di chi non ha”pretese” da avanzare ma domanda semplicemente il rispetto per chi è stato ucciso, una richiesta di legittimazione e di riconoscimento pubblico: le vittime potrebbero essere ben a diritto considerate esattamente come quei partigiani che hanno versato il loro sangue combattendo contro i nazi fascisti.
Curiosamente avevo interrotto la lettura poche pagine prima di arrivare a trovare proprio lo stesso concetto: l’equiparazione tra i partigiani e le vittime del terrorismo.
Mi è piaciuto lo spirito di ripresa, che lentamente ha saputo farsi strada tra i rovi fino a germogliare e produrre frutti importanti: il secondo matrimonio della madre di Calabresi e la frase dell’ultimo fratello mi sembrano un’opportunità offerta a chiunque si trovi in difficoltà; mi permetto di citare quella frase perché ci trovo, pur nell’imbarazzo di un bambino che certamente incontrava un problema, un’idea di soluzione valida per chiunque: “Mamma, io non so come fare: voglio bene ai fratelli e mi dispiace che il loro papà è morto, ma se non fosse successo io non sarei nato”. C’è sicuramente un qualche senso di disagio ma mi piace pensare all’idea che da qualunque situazione dolorosa, negativa anche pesantissima, si può uscire e bene: un fratello in più, un padre in più…
Non mi piace invece l’idea che lo stato debba prendersi cura dei famigliari delle vittime: credo debba rispettarne la memoria, difendere quello che ritiene siano le fondamenta del vivere comune, libertà, democrazia, rispetto, opportunità per chiunque, e liquidare le vittime, pagare loro un importante indennizzo, niente altro. Credo spetti a ciascuno pensare ad una soluzione, coi mezzi che vorrà procurarsi; credo sia meglio arrangiarsi che pensare a uno stato che si occupa di noi; lo stato se ne resti fuori.
Credo che potrebbe valere la pena fare affari con una persona come Mario Calabresi.