finalmente a Sagunto

Sagunto CastelloSecondo giorno dedicato a Sagunto, famosissima cittadina (almeno a mio parere anche se ho scoperto che solo Gabriele si ricorda di lei): sin da giovane studentello la famosa frase ripresa da Tito Livio che fa riferimento alla città mi è rimasta nella memoria; ricordo poi che il Cardinale Salvatore Pappalardo, Arcivescovo di Palermo, fece propria quella stessa frase, nell’omelia per il funerale del Generale Carlo Alberto dalla Chiesa.

Dum Romae consulitur Saguntum expugnatur è dunque una delle frasi che mi accompagna da anni e che mi ha spinto a visitare la città.

Le informazioni su come arrivarci le ho avute il giorno precedente dagli uffici informazioni di Plaza del Ayuntamiento e da quello di Calle de la Paz al quale ero stato mandato per avere notizie sulla provincia (chissà perché non si possono mettere in rete i vari uffici, mah)…

A due passi dalla Estaciò del Nord, mi ci avvio di buonora, con difficoltà a fare colazione: la città sembra proiettata tutta sulla sera, così al mattino presto (intendo le otto, quindi neanche tanto presto) si fa fatica a trovare qualche bar aperto.

Compro il biglietto ida y vuelta a poco più di tre euro e parto; arrivo a Sagunto poco prima delle 10.00.

Qui tutto apre alle 10.00, ma la cosa non è un problema visto che devo salire al castello che non è proprio a due passi dalla stazione; mi incammino di buona lena ed inizio la salita.

Il paese sembra deserto, nessuno in giro, salvo alcuni operai che stanno rimettendo a posto la pavimentazione stradale.

A passo non proprio spedito mi avvicino alla meta prefissata, il famoso Castello; ci arriverò alle 9.59, con cancello già aperto ed anche qui solo come un perrito (in effetti c’è un cagnolino che gira intorno, immagino faccia compagnia al bigliettaio).

L’area è decisamente grande, con ruderi abbandonati in giro, alquanto diroccata, comunque interessante.

Mi viene in mente che sto calpestando lo stesso suolo che hanno calpestato gli abitanti della città assediata dai cartaginesi, da Annibale Barca e quindi dai romani che l’hanno ricostruita; qui è avvenuto l’episodio che ha dato origine alla seconda guerra punica, nel 219 a.C., insomma sono sul teatro di un evento lontanissimo nel tempo ma di grande importanza.

Incontro, all’improvviso uno scoiattolo impertinente che mi si avvicina e subito scappa via velocemente senza permettermi di fargli una foto in primo piano; nella mia escursione sono accompagnato da vari uccellini, bianchi e grigi, eleganti e delicati, che ho cercato, invano, di fotografare; all’improvviso spuntavano dal dirupo, si esibivano in alcune veloci evoluzioni, quindi scomparivano nuovamente, come risucchiati dalla voragine; sembravano sfidarmi e farsi beffe del mio desiderio di immortalarli.

Visita anche alle epigrafi rinvenute, niente di che rispetto ai tesori che custodiamo in Italia, ma con buone spiegazioni.

Scendo a visitare il famoso teatro, che, visto il restauro, mi delude completamente; certo è bella l’idea di recuperarlo in modo da poterlo riutilizzare ma mi dà l’idea di qualcosa di poco riuscito, una sorta di vestito nuovo addossato a quello vecchio.

Le chiese, manco a dirlo, sono tutte chiuse, abbastanza poco significativo anche il quartiere ebraico.

Grazie al mio innato ed innegabile senso dell’orientamento scendo dalle pendici del paese e finisco in quella che è la Sagunto moderna, questa sì molto animata (c’è il mercato in corso); convinto della bontà della mia scelta percorro il viale che dovrebbe condurmi alla stazione.

Dopo lungo scarpinare, insospettito dalla presenza di alcuni palazzi che non avevo visto all’andata mi sono deciso a chiedere informazioni; l’uomo (unico essere vivente che ho incontrato in quel tratto di viale) mi ha detto che la stazione, beh, era dall’altra parte della strada, indicandomi un punto nell’orizzonte.

Scoprirò quindi di avere circumnavigato il paese per quasi tre quarti, facendo un certo numero di kilometri inutilmente, sia all’andata che al ritorno, direi sui 6/7 km.

Ritrovata la via, arrivo stanco e affamato alla stazione; nei pressi c’è un ristorante dove mi fermo a mangiare un boccone; non so se sia stata la fame o le traveggole ma, sapendo benissimo cosa sia l’arroz (cioè il riso) ero convinto che di arrosto si trattasse, quindi, quando il titolare mi ha proposto un piatto di arroz con non ho capito cosa, ho accettato di buon grado.

La sorpresa è stata quando mi è arrivato un fumante piatto di arroz con chirivia e nabo che sarebbe riso in brodo con pastinaca (indovinate cos’è, beh è una sorta di carota bianca) e nabo ovvero rapa cioè tipo un rapanello sempre di colore bianco, il tutto assieme a maiale non meglio identificato. Buon piatto anche se un po’ laborioso da pulire, specie per chi è di corsa e non capisce bene cosa naviga nel liquido.

Tornato a Valencia, dedico il pomeriggio, sebbene le gambe siano indolenzite e a rischio continuo di crampi, all’Iber, Museo de los soldaditos de plomo, ovvero il museo dei soldatini di piombo. A parte che è il più costoso museo della città (5 euro) e che, ancora una volta, ero solo come il famoso cane (ma i cani non erano animali sociali?), devo dire che vale la pena farci un salto perché è una raccolta straordinaria di soldatini di piombo di tutte le epoche e fogge, con anche alcune ricostruzioni di famosi campi di battaglia; ovviamente non ci sarei mai andato se avessi avuto la città da visitare, ma visto che molto l’avevo già passato in rassegna 3 anni fa, diciamo che è stata una bella esperienza.

Molto gentilmente il cassiere, che evidentemente voleva farmi lo sconto sul biglietto, per premiare la mia buona volontà, mi chiede se per caso fossi un jubilado; non mi sono offeso, ma certo non mi sembra di essere così malridotto da sembrare un pensionato.

Subito dopo ecco la visita della Lonja de mercaders, esempio straordinario di edificio gotico che da solo vale il viaggio. Fortuna vuole che trovo casualmente aperta (per pochissimi minuti però) anche la prospiciente chiesa de los Santos Juanes, molto bella all’esterno ed ancora inesplorata all’interno. Entro di corsa, riesco a scattare un paio di foto prima della chiusura; la cosa che più mi incuriosisce, e che non ho mai visto altrove, la presenza, nella navata e non solo, delle statue dei figli di Giacobbe, cioè le dodici tribù di Israele.

Per concludere la serata mi concedo una visita, del tutto non programmata, perché non avevo idea dell’esistenza di questo palazzo, ovvero il Centro Cultural Bancaja.

Al secondo piano del palazzo l’esposizione, che mi è piaciuta molto e che mi piacerebbe replicare anche a Parma, se fosse possibile e solo in parte, ovvero tutto nasce da un giornalista (ed un fotografo) che intervista i pittori del territorio valenciano, pubblicando quindi una serie di articoli corredati di alcune foto.

Nel centro culturale questa idea è stata trasformata in una esposizione con le opere corredate da alcune foto e da una parte dell’intervista: un bel modo di valorizzare i pittori locali, senza chiudersi nel provincialismo.

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Al primo piano una simpatica mostra dedicata a Picasso di cui parlerò a parte.

Cena in centro, dove mi gusto l’ennesima paella e dove dimentico l’opuscolo dedicato a Sorolla che avevo poc’anzi acquistato: una giovane e cortese cameriera mi rincorre fuori del locale per restituirmi la borsa abbandonata.

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