Mors et Vita duello conflixere mirando

Ieri sera è accaduto, è la seconda volta, ma la prima “in solitaria”, di dover rilevare un incidente stradale mortale, che ha visto il coinvolgimento di un giovanotto.

Di fronte alla salma mi sono fatto un segno di croce, pudicamente, di nascosto quasi, ed ho lottato contro le lacrime che tentavano di vincere l’autocontrollo che serve in questi casi.

Non era sorella morte, quella, o almeno io non l’ho vissuta così, circondato da tante necessità ed urgenze.

Resto schifato, confermato  da anni ormai di esperienze,  dagli avvoltoi che si cibano mediaticamente di tali drammi.

Ho lavorato tutto il giorno per le indagini del caso, sono stremato, solo.

Mi avverto sempre più solo, diffamato anche dalla voce che sarei il prediletto di chi esercita il comando (ma il termine non è proprio quello di prediletto che viene usato).

Ne sono stanco e sfiduciato: lo sforzo costante di essere cortese e disponibile, educato e gentile sembra non pagare.

Il senso di isolamento mi angustia, mi avverto come Sisifo o Atlante: non cederò alla stanchezza ma scorgo il baratro sempre dietro l’angolo.

E intanto sorella morte ogni tanto fa capolino e mi ricorda che il tempo non è infinito e l’angoscia mi assale: no non è sorella morte, non sono ancora così perfetto da poterla chiamare sorella.

Mi si riaffaccia alla mente uno dei miei poeti prediletti, l’Ungaretti del Carso, e mi sento anima nuda che accetta miserabili compromessi, che si avvoltola nella mota per coprire col fango le ferite che la nevrosi fa suppurare.

Torno a Shakespeare e non solo a lui per ripendere un cammino che è fatica, dolore, delusione e stanchezza.

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