Parlando con mia nipote, che ha 10 anni, delle funzioni della cellula (che sta studiando suo fratello) mi diceva che quando lei studierà lo stesso argomento, io sarò già morto; mi ha fatto sentire, non tanto vecchio, quanto distante, sideralmente distante, da una nipote che vorrei tanto diventasse la mia erede, essendolo, comunque, già.
Stasera, dopo una giornata alterna di alti e bassi, con la mamma che si è messa agevolmente a camminare, mi è successo di uscire dall’ospedale a tarda ora, o meglio, ad un’ora in cui il sole era già calato.
Mi sembrava di stare in un’ambientazione surreale, con poche persone in giro, i padiglioni illuminati, i viali pressochè sgombri, la chiesa al centro del viale…
L’ospedale si sta rivelando una micidiale attrazione: in fondo garantisce, cura, attenzioni, compagnia, il tutto a basso costo.
Quali unioni è in grado di creare il dolore!
Mi scopro anch’io non immune: di fronte al dolore mi faccio in quattro e mi dedico con tutto me stesso, per quel che posso, il che non è sbagliato, tuttavia è parziale, insufficiente.
L’ospedale, come la scuola (ricordo gli anni delle scuole medie e del liceo), in fondo, è garanzia di appuntamenti, sebbene non sia richiesta alcuna preparazione, è un miserevole accontentarsi, come il cibo ospedaliero: qualità ridicola, ma garantisce il nutrimento.
Chi si accontenta, non gode.
Ieri sera, frutto del mio lavoro, ho raccolto il pomodoro più grosso dell’orto, del peso di 590 g; l’ho offerto a mio fratello, sperando che apprezzi.
1 commento
Aggiungi il tuo →bravo Luciano! è molto pertinente il contesto a cui ti sei rifatto per smascherare una teoria ingannevole che chi si accontenta gode