Palazzo Schifanoia

Dire Palazzo Schifanoia e dire Ferrara per me è la stessa cosa; non ne so il motivo ma Ferrara con quello la identifico seppur non sia mai riuscito a visitarlo nonostante le visite che non numerose ma ci sono state e non poche.

Una volta, ad esempio, ci andai con don Piero: l’occasione fu una visita al Museo della Cattedrale, con contorno di anguilla alla griglia che gustammo in un locale non lontano da Palazzo dei Diamanti.

L’ultima volta scoprii che era chiuso per restauro ed ero ormai rassegnato a metterlo definitivamente tra i luoghi non visti quando l’invito dei colleghi di Bondeno ha riaperto i giochi.

Diciamo subito che la visita è stata all’altezza delle aspettative: il posto è bello e ben strutturato.

La storia del palazzo è nota: costruito in zona suburbana con lo scopo di schifare la noia, schifare sta per schivare, ha segnato l’epoca dello splendore rinascimentale di Ferrara; le forme attuali risalgono al governo di Borso I, primo duca di Ferrara che commissiona quel capolavoro che è il ciclo dei mesi, nell’ampio salone di rappresentanza che rappresenta un po’ il cuore dell’attuale museo.

La struttura iconografica è attribuita a Pellegrino Prisciani, un famoso – almeno nel Ducato – astronomo, archivista, erudito uomo di fiducia dei primi tre duchi di Ferrara (con Modena e Reggio Emilia), un umanista dagli interessi ed occupazioni poliedriche com’era uso ai tempi.

Il concilio di Ferrara del 1438 ha visto la presenza di tanti eruditi che hanno sicuramente stimolato ed influenzato il cenacolo culturale ferrarese, legato al potere ducale.

Ma torniamo al ciclo dei mesi, uno dei cicli decorativi più grandi del Rinascimento: diviso in 12 sezioni verticali, come il numero dei mesi, ha poi una tripartizione orizzontale, con all’apice la divinità protettrice e la descrizione delle attività tipiche di quel mese, al di sotto, nel registro centrale il segno zodiacale con misteriose figure identificate, ma senza certezza, con i decani dell’astrologia egizia e caldea ed infine, nel registro inferiore, scene di vita di Borso d’Este.

Emerge, come in tante altre rappresentazioni di case regnanti, la poca modestia che caratterizzava il potente di turno, solitamente poco propenso all’esercizio di suddetta virtù anche se, bisogna ammettere, che l’uso propagandistico cioè politico di queste opere stempera il correlativo peccato mortale della superbia, insomma se volevi essere un signore adeguato ai tempi non potevi permetterti di comportarti in modo diverso ed era d’obbligo mostrarsi sfarzosi almeno quanto bastava a scongiurare la figuraccia di sembrare un pezzente.

In accordo col fine del palazzo, evitare la noia, le rappresentazioni pittoriche sono a carattere laico o meglio viene celebrato il trionfo di un’altra religione, evidentemente ritenuta meno noiosa di quella cristiana ufficiale, l’astrologia.

Guardando la sala, il pensiero correva alla famosissime Sibille del pavimento del Duomo di Siena, di pochi decenni successive al ciclo dei mesi: in quel periodo, conosciuto come Rinascimento, stava prendendo piede un tipo di pensiero non proprio amico di quello cristiano, e non è stato necessariamente un progresso.

Splendido questo ciclo dei mesi ma quel che più ha attirato la mia attenzione sono state le placchette in avorio esposte nella prima parte del percorso di visita: da sempre l’oggettistica in avorio, con le deliziose miniature che ne sono state ricavate, hanno suscitato il mio incondizionato entusiasmo.

L’apoteosi, però, è stata raggiunta con le “storie della passione di Cristo“, un polittico costituito da 7 formelle (chissà se si chiamano così) in alabastro policromo, opera di ignote maestranze inglesi della prima metà del XV secolo, provenienti dalla chiesa di sant’Andrea: la centrale, che raffigura la morte in croce, è di dimensioni maggiori rispetto alle altre che rispettivamente precedono e seguono il drammatico episodio clou della storia della salvezza.

A sinistra l’arresto di Gesù nel Getsemani, la flagellazione e la salita al Calvario, a destra deposizione, sepoltura e, finalmente, la resurrezione; curiosamente lombrosiani i volti degli sgherri, raffigurati come caricature.

Un’opera davvero splendida, che mi ha incantato.

Vi sono poi esposte una serie di belle monete, una delle quali, opera di Pisanello, riproduce un motivo che si trova riproposto anche nelle decorazioni murali di palazzo Schifanoia, il triplice volto, il viso di un giovane che guarda a sinistra, al centro e a destra; secondo la studiosa Anna Eörsi si tratterebbe di una rappresentazione della musa Calliope, che Guarino Veronese, nella lettera programmatica a Leonello d’Este sulla decorazione dello Studiolo di Belfiore, aveva descritto come «tribus compacta vultibus, cum hominum, semideorumbac deorum naturam edisserat», mentre a parere di Ranieri Varese, saremmo in presenza di un’allegoria della prudenza, considerando i volti nelle tre direzioni come il susseguirsi del tempo (vedasi tesi di dottorato di ricerca della Dott.sa Irene Galvani).

Ma non c’è solo quello da vedere: come trascurare le sculture di Sperandio Savelli, in terracotta, opere deliziose e frutto dell’ingegno di questo a me sconosciuto artista che ha vissuto una vita decisamente travagliata e avventurosa; da notare anche il sarcofago di Prisciano Prisciani, dello stesso Savelli e come dimenticare le due splendide rappresentazioni di san Francesco e san Bernardino da Siena, in terracotta invetriata, opere di Andrea della Robbia.

C’è poi una imperdibile Dolente, sempre in terracotta, di quel maestro che ho scoperto nel mio periodo modenese, Guido Mazzoni.

Non manca nemmeno una piccola – ma non modesta – pinacoteca per chiudere in bellezza con la collezione del cardinale Giovanni Maria Riminaldi, innamorato della sua città d’origine cui ha lasciato in eredità le opere da lui collezionate o acquistate appositamente per alcune istituzioni ferraresi.

Figura importante, questo cardinale, che fu incaricato della riforma dell’Università ferrarese che, secondo quanto riporta il sito della Treccani, volle “fossero chiamati ferraresi espatriati o altri insigni docenti esterni alla città. L’obiettivo era evitare di conferire un’estrazione ‘locale’ ai lettori e svecchiare il corpo docente che passò da 61 anni a 40 di età media. Le cattedre furono attribuite tramite concorso e divennero obbligatori i titoli di laurea per tutti i candidati, a eccezione degli ecclesiastici regolari. Furono fissate le ore di insegnamento, le assenze, il comportamento dei docenti, riorganizzato il sistema delle retribuzioni e della carriera. L’Università fu assoggettata al cardinale legato. Il rinnovamento suscitò una scia di polemiche tra i nobili ferraresi”.

Ai tempi suoi andava per la maggiore tal Johann Joachim Winckelmann, un pezzo da novanta della cultura mondiale: di neoclassicismo si sta parlando e a questa concezione si rifà in nostro cardinale nell’organizzazione delle opere inviate a Ferrara.

Le opere raccolte, esposte con intento didascalico – d’altronde erano pensate per il museo universitario – sono splendide, busti in marmo uno più bello dell’altro.

Da non perdere, stavolta direttamente dal cimitero monumentale della Certosa, il busto di Leopoldo Cicognara, squisita opera di Antonio Canova, ma l’intera esposizione di marmi e bronzi meriterebbe da sola una visita a Palazzo Schifanoia e a Ferrara.

Un luogo imperdibile, in una città splendida.

Ferrara, 26 gennaio 2023, memoria dei santi Timoteo e Tito, vescovi

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