Omelia nella messa esequiale di Roberto Mastri

Debbo fare alcune premesse e sarà difficile che riesca ad essere sintetico, è ontologicamente contrario al mio essere, la sintesi.

Prima nota: mi sarebbe piaciuto moltissimo che il funerale di Roberto venisse celebrato in cattedrale ed il rito fosse presenziato da S.E.R. l’arcivescovo di Bologna, assieme a S.E.R. il vescovo di Forlì, ovviamente con i tre sacerdoti che hanno concelebrato il rito in parrocchia.

Avrei gradito sentire le note solenni della messa da requiem di Mozart accompagnare la cerimonia, come ricordo accadde nella cattedrale di Vienna, lo Stephansdome, in occasione della messa esequiale per quello che sarebbe divenuto san Giovanni Paolo II (ero in gita a Vienna in quel periodo ed ebbi questa insperata “fortuna”); insomma nei miei “sogni” speravo fosse una celebrazione solenne come quella di una canonizzazione: ammetto che si tratta di un “delirio”, frutto in parte del clericalismo che ancora sopravvive in me ed in parte alla sensibilità verso la solenne bellezza dei riti cristiani.

Roberto disapproverebbe (ma non la scelta musicale), giudicandosi un peccatore indegno di tanta considerazione.

Se scaccio il demone clericale che è in me, non posso che valutare positivamente, molto positivamente, la messa esequiale presieduta da Fra’ Pietro Zauli, giovane domenicano che ha conosciuto bene l’amato Roberto.

La chiesa era piena di persone, intervenute perché in qualche modo avevano incontrato Roberto e ne avevano apprezzato le qualità: è stata una celebrazione in famiglia e ben gestita come tutte le cerimonie religiose dei ciellini, in cui l’ordine e la compostezza contribuiscono sempre a rendere solenne la cerimonia.

Innanzitutto ecco la prima novità: il celebrante conosceva il defunto, parlava con competenza della sua vita, non era uno sconosciuto; quel rito non era la trita consuetudine cui siamo abituati vivendo in un paese sedicente cattolico, cui si presenzia senza partecipare.

Seconda novità: il celebrante ha tenuto un’omelia con alcuni spunti di riflessione sicuramente interessanti; normalmente le omelie mi fanno addormentare ma così stavolta non è avvenuto.

Le letture:

Dal libro del profeta Michèa

Mic 7,14-15.18-20

Pasci il tuo popolo con la tua verga,

il gregge della tua eredità,

che sta solitario nella foresta

tra fertili campagne;

pascolino in Basan e in Gàlaad

come nei tempi antichi.

Come quando sei uscito dalla terra d’Egitto,

mostraci cose prodigiose.

Quale dio è come te,

che toglie l’iniquità e perdona il peccato

al resto della sua eredità?

Egli non serba per sempre la sua ira,

ma si compiace di manifestare il suo amore.

Egli tornerà ad avere pietà di noi,

calpesterà le nostre colpe.

Tu getterai in fondo al mare tutti i nostri peccati.

Conserverai a Giacobbe la tua fedeltà,

ad Abramo il tuo amore,

come hai giurato ai nostri padri

fin dai tempi antichi.

Dal Salmo 102 (103)

R. Il Signore è buono e grande nell’amore.

Benedici il Signore, anima mia,

quanto è in me benedica il suo santo nome.

Benedici il Signore, anima mia,

non dimenticare tutti i suoi benefici. R.

Egli perdona tutte le tue colpe,

guarisce tutte le tue infermità,

salva dalla fossa la tua vita,

ti circonda di bontà e misericordia. R.

Non è in lite per sempre,

non rimane adirato in eterno.

Non ci tratta secondo i nostri peccati

e non ci ripaga secondo le nostre colpe. R.

Perché quanto il cielo è alto sulla terra,

così la sua misericordia è potente su quelli che lo temono;

quanto dista l’oriente dall’occidente,

così egli allontana da noi le nostre colpe. R.

Dal Vangelo secondo Luca

Lc 15,1-3.11-32

In quel tempo, si avvicinavano a lui tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro». Ed egli disse loro questa parabola:

«Un uomo aveva due figli. Il più giovane dei due disse al padre: “Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta”. Ed egli divise tra loro le sue sostanze. Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto. Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. Allora andò a mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi a pascolare i porci. Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci; ma nessuno gli dava nulla. Allora ritornò in sé e disse: “Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati”. Si alzò e tornò da suo padre.

Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. Il figlio gli disse: “Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio”. Ma il padre disse ai servi: “Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi. Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”. E cominciarono a far festa.

Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; chiamò uno dei servi e gli domandò che cosa fosse tutto questo. Quello gli rispose: “Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo”. Egli si indignò, e non voleva entrare. Suo padre allora uscì a supplicarlo. Ma egli rispose a suo padre: “Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici. Ma ora che è tornato questo tuo figlio, il quale ha divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello grasso”. Gli rispose il padre: “Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”».

La lettura del Vangelo, la parabola del padre misericordioso, mi ha fatto pensare come fosse applicabile all’amico Roberto; nel suo caso ci sarebbe da apportare qualche modifica perché lui è stato, indiscutibilmente, il figlio maggiore, quello che è rimasto col Padre, non se n’è mai allontanato, ma questa vicinanza è stata, a differenza della parabola, quella di un figlio, non quella di uno che si è percepito come un servo, magari il capo dei servi, ma solo e soltanto un sottoposto.

Perché nella parabola il figlio maggiore si lamenta e rinfaccia di essere sempre stato obbediente e fedele, di non avere mai disobbedito ed in cambio di tanta devozione, nemmeno un capretto per festeggiare con gli amici.

Una figura triste, che pensa al rapporto col Padre in termini di sottomissione e di obbedienza come rinuncia; ecco Roberto potrebbe prenderne il posto giudicandolo con un bonario “che sciocco che sei, non hai bisogno di domandare capretti perché sono già tuoi e che figlio sei se guardi al sudore della fronte e trascuri di avere l’intero patrimonio del Padre a disposizione?”

Questo è Roberto: discreto, senza necessità di sgomitare, di apparire, di fare carriera, consapevole di essere il figlio maggiore che resta accanto al fianco del Padre, ben felice di accogliere i fratelli prodighi che si sono accorti della sciocchezza commessa nell’allontanamento dal Padre che è stato un impoverimento perché, per Roberto come per tutti, restare accanto al padre era ed è fonte di ricchezza.

Ecco il testo dell’omelia; sbobinata dal sottoscritto, non rivista dall’autore; ho provato a contattare, via email, Fra’ Pietro ma non ho avuto (almeno fino ad ora, risposta); le parole tra parentesi e col punto interrogativo non mi erano chiare, i puntini di sospensione tengono il posto di qualche parola totalmente incomprensibile, poche, per fortuna.

Vorrei dire che se c’è qualcosa che ha descritto bene Roberto Mastri è questa classica espressione: “un uomo delle istituzioni”, ed effettivamente, al di là del fatto che lo incarnava meravigliosamente quando attendeva, all’ingresso, noi studenti, soprattutto i ritardatari – ai quali io mi devo assolutamente includere – per cui era quasi una tradizione trovarlo all’ingresso a firmare i nostri ritardi – con puntualità …

Ebbene era un uomo delle istituzioni che indubbiamente ha dato la sua vita alla scuola, per la scuola, ma non vorrei che questa affermazione fosse fraintesa, perché se è vero, ed è sempre stato vero, ed è una grazia che il Malpighi,  la nostra scuola, cerchi di viverlo, la scuola è innanzitutto scuola di persona; non è a un’istituzione che Roberto ha dato la sua vita, la sua abnegazione e la sua fedeltà ma è a quelle persone che la scuola intende servire, a noi, ha dato la sua vita a noi, in quella forma di paternità particolare che è la docenza, ma che è una paternità, perché quando un uomo dà la vita a un altro uomo, ritenendolo irriducibile a lui e stimandolo libero, e guardate che io ho imparato, nel corso degli anni della mia vita religiosa che quel rigore di Mastri, che sembrava la regola, era una stima, un atto di stima alla libertà, che è chiamata a scegliere e quando sceglie di contravvenire alla regola è chiamata a farsi carico delle sue responsabilità.

Solo la libertà carica di responsabilità è libera, il resto è un gioco, è davvero un gioco e Roberto ci ha impedito, come studenti, di giocare a fare gli studenti, ma di esserlo fino in fondo, fino in fondo, e questo fa di noi, per questo gesto gratuito di vita, di vita, la sua famiglia.

Roberto non ha avuto figli, ma in un certo senso i suoi studenti sono stati i suoi figli, i suoi colleghi sono stati i suoi fratelli, i suoi docenti sono stati i suoi mentori, i suoi padri, a fianco dei suoi padri naturali, alla sua mamma che è qui, che veglia sulla sua salma e questo fa di noi responsabili come famiglia di Roberto anzitutto nella intercessione, nella intercessione.

Essere grati significa, a questo punto, pregare perché veda quanto prima il Creatore – data la sua rettitudine io dubito che avrà problemi all’ingresso, come si suol dire, soprattutto il mio omonimo, Pietro, cercherà di intercedere, di guadagnare particolare favore per lui, essendo docente di filosofia, trovandosi lì a studiare filosofia qualcosa passa, qualche gene passa nell’insegnamento.

Ebbene siamo carichi, dobbiamo farci carico della preghiera per lui; d’altro canto le preghiere non sono fatte per parlarci di lui, la cui vita rimane un mistero, le letture – questo sembrerà banale dirlo ma in verità bisogna sempre ribadirlo – sono fatte per coloro che ascoltano, e interpellano noi, vogliono parlare a noi.

C’è un’espressione cristiana che è “tornare alla casa del Padre”, con cui noi indichiamo il trapasso dei nostri morti e guarda caso questa espressione è rubata da qualche pagina del Vangelo che non sembra sempre parlare di questo; una di queste pagine è proprio quella che abbiamo letto oggi, che è la lettura del giorno che io non ho voluto cambiare, benché fosse possibile.

È rivolta a noi, perché c’è il rischio, e guardate che noi in un certo senso più nella condizione del secondo fratello, il primogenito, che del prodigo; c’è il rischio di stare di fronte al ritorno alla casa del padre di un figlio e di non voler entrare, di rimanere scandalizzati, cioè una gelosia nei confronti di Dio, che può tenere fuori perché pare che la sua troppa generosità ci tolga qualcosa e questo ci dice che non l’abbiamo ancora capita infinitamente, non l’abbiamo ancora capita infinita.

Ma c’è in secondo (indizio?) che riguarda noi oggi, cioè di essere gelosi dei nostri fratelli e siccome il padre li ha chiamati, volere non entrare, volere rimanere fuori, anche da quella forma di comunione che ci è concessa sin da qui per il ritorno alla casa del padre, il che cambia anche tutto lo sguardo che abbiamo sulla morte.

C’è il rischio di rimanere così scandalizzati da dire che se c’è un Dio che permette una morte tutto sommato giovane, che peraltro ha passato parte della sua vita a combattere la malattia, un Dio che permette una cosa simile o non è buono o non esiste e siccome ci è molto difficile, questo è uno dei buoni effetti del cristianesimo, a differenza del paganesimo, ci è difficile credere che un Dio non possa essere buono, allora diciamo che non esiste. Guardate che, e su questo mi permetto di insistere, la morte in questo mondo non è un’obiezione a Dio; se pensiamo, riflettiamo a quanto stiamo dicendo quando parliamo di morte, non stiamo obiettando nulla a Dio, la morte sta come un testimone di fronte alla nostra vita e il suo dito scheletrico e il suo sguardo cavo ci fissa negli occhi e ci dice: “ricordati, per amor di Dio, ricordati che la tua vita non è tua, che la tua esistenza non è tua, che il tuo essere non è tuo; non hai scelto la data della tua nascita – anche questo: persino la notizia di essa abbiamo ricevuto perché se non ci fosse qualcuno che ci dice quando siamo nati non sapremmo neppure la (data?) di questo giorno.

Non possiamo allungare di un minuto la nostra vita ma se tendiamo una corda agli estremi, tutta la corda è tesa, se prendiamo l’inizio e la fine di qualcosa hai preso tutto ciò che ci sta in mezzo, questo è anche uno dei principi ermeneutici che usavano i padri per interpretare le cose, e che valgono ancora adesso, tutta la vita è compresa in questo “non sono padrone” dal giorno della nascita al giorno della morte.

E guardate che questo è (liberante?) perché questo “non sono padrone” (vuol dire?) che non dipende tutto da me ma anzitutto dipende da colui che mi ha dato a me stesso; niente delle cose che vediamo sono fatte … e tuttavia sono, sono senza essere state consultate perché Qualcuno ha profondamente pensato che potessero essere, siamo il pensiero di Qualcuno che ci ha voluto a tal punto da farci essere, da non fare neppure, da non permettere che i nostri … costitutivi, le nostre fragilità, tutto quello che ci compete costituisca un’obiezione al fatto che dobbiamo essere, che siamo un dono, che siamo un dono e questo dono è fatto per l’incontro la cui soglia passa attraverso quella cortina misteriosa tra l’al di qui e l’al di là che noi chiamiamo morte e se tanta cortina separa la nostra vita da quella che sarà, per il peso di questa cortina (abbiamo? capiamo?) il mistero che ci aspetta perché niente più della morte, se non come la morte poteva (espungerla?) velarla, renderla misteriosa.

Però d’altro canto noi sappiamo che il Cristo che ha varcato questa cortina, due volte, facendosi uomo per prenderci per mano e morendo affinché questa mano varcasse sicuramente quella soglia perché quella soglia non ci facesse più paura, perché la varcasse non solo con l’anima ma con l’anima e col corpo, noi che restiamo crediamo nella resurrezione e ci rivedremo con gli occhi con cui ci stiamo guardando ora, ché tale è prezioso il nostro volto che nessun dettaglio di esso andrà perduto, questa è la resurrezione, l’immortalità del dettaglio della morte, questa è la resurrezione.

Ebbene il Cristo ci insegna a viverla come una festa, una festa al punto che, guardate, non è fisso nella liturgia che il colore di oggi deve essere viola, dipende dalle conferenze episcopali, che si adattano alla cultura del posto e vi sono posti che la celebrano in bianco perché il ritorno alla casa del padre è una festa.

C’è una vecchia preghiera, polverosa, e come tutte le cose vecchie e polverose talvolta nascondono sotto vari strati di grigio un’antica lucentezza ed è quest’antica preghiera “L’eterno riposo”: “L’eterno riposo dona loro, o Signore, e splenda ad essi la luce perpetua”.

Noi ci fermiamo quasi sempre alla prima parola, è quella che (segna?) il nostro impatto e ci dice riposo … si dorme, propriamente il riposo non è il dormire anche se questo è il modo in cui noi lo viviamo al massimo grado, perché il riposo è il “toglimento” della fatica, il togliere la fatica che poi noi tutti esercitiamo dormendo, tuttavia non so se avete notato il versetto successivo che dice: splenda ad essi una luce perpetua, non so se vi è mai capitato, nei … succede quando ancora non ti hanno messo le tapparelle, di dovere dormire, nel primo pomeriggio, con la luce abbagliante del sole, lì, tutto fai meno che dormire: provate con una bella luce solare sparata sul viso vediamo se dormite, quindi che significa?

Che questo riposo di cui parla questa preghiera non c’entra niente con il sonno, ma se al riposo togliamo l’inattività e la fatica, che cosa rimane? Un’attività piena senza fatica.

C’è un subbuglio nei cieli che noi nemmeno ci immaginiamo: probabilmente Roberto non è mai stato indaffarato com’è ora, anzi siamo noi i nottambuli; agli occhi dei santi questi nottambuli che vanno in giro biascicando in mezzo ai sogni, imprigionati nell’onirismo dei propri pensieri, delle proprie angosce, dei propri talvolta non troppo prudenti progetti siamo noi, e loro ci guardano da svegli, ci guardano da svegli.

Diceva Victor Hugo, con una frase mirabile che mi è profondamene cara, che i santi stanno guardando i nostri occhi pieni di lacrime con occhi pieni di gloria.

Questa l’omelia.

Evidenzio che riposare ha significato di “cessare e ristorarsi dalla fatica, prendere riposo”; ha detto bene il celebrante: il riposo non è inattività ma è lavoro senza sudore della fronte e con produzione di frutti, senza errori, sprechi, fallimenti. Il paradiso potrebbe ben essere questo: lavoro sempre produttivo e senza fatica e regime dell’appuntamento sempre onorato.

Forlì 11 marzo 2023 memoria del  Beato Tommaso Atkinsons sacerdote e martire

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