noi siamo piccoli e “non” cresceremo

Sono stato cooptato in un gruppo di whatsapp composto da colleghi di ogni parte d’Italia; come ogni altro gruppo o raggruppamento di persone ci trovo cose molto apprezzabili ed altre meno, e questo è normale, ma vi ho scoperto la voglia di lavorare sempre al meglio, l’entusiasmo e la professionalità che molti operatori delle polizie locali mettono quotidianamente nel loro lavoro, nell’aggiornamento e nello scambio di aiuto quando serve.

Questa partecipazione mi tiene informato delle ultime novità e mi coinvolge, fin troppo, nelle discussioni che si susseguono.

Una di queste, com’è intuibile, riguarda la riforma della polizia locale: dichiaro subito, apertamente che io non ci credo: una riforma così è tanto urgente e necessaria quanto irrealizzabile; troppe sono le ostilità che bloccano qualsiasi possibilità di cambiamento, secondo lo stile immobilistico italiota.

Per un verso siamo il giocattolo dei sindaci (da questa considerazione sono esclusi i miei sindaci passati presenti e futuri, sia chiaro) che hanno avuto un incremento di potere considerevole, si sono trovati esposti verso la cittadinanza (che chiede loro di risolvere ogni e qualunque problema) cui sono incapaci di opporre qualsiasi diniego (in una spirale di reciproci “ricatti” che comporta solo riflessi negativi su una serena gestione della cosa pubblica),  e quindi si sono assunti, spesso e volentieri, le incombenze che spetterebbero ad altri (antidroga ad esempio).

Per un altro verso siamo l’utile schiavetto delle forze di polizia nazionali.

Queste ultime si sono, nel tempo, scelte le funzioni che hanno ritenuto più consone al loro ruolo ed hanno delegato alle polizie locali tutto quello che è stato considerato non interessante; a livello di marketing, inoltre, la conseguenza più evidente è che carabinieri e polizia passano per quelli buoni che difendono i cittadini dai cattivi mentre la polizia locale è quella che fa le multe per rimpinguare le casse comunali (col vergognoso silenzio delle amministrazioni pubbliche).

Lo stesso Stato mostra di fidarsi poco quando, ad esempio, stabilisce che il 50 % degli introiti da autovelox debba andare all’ente proprietario della strada, che è un modo tipicamente italico di trovare un compromesso tra contrastanti esigenze, in favore del permanere di una zona grigia di ambiguità.

I comuni, non tutti e non sempre per carità, cercano di utilizzare le polizie locali per rimpinguare casse sempre più vuote perché la famosa distinzione tra organo politico (che dà le direttive) ed organo tecnico che le concretizza è uno dei tanti specchietti per le allodole che.. così capitano (in passato) i velox posizionati in un tratto di non più di 500 m di strada statale che attraversa il territorio comunale per fare un esempio banale banale.

C’è ancora da aggiungere che, a differenza delle polizie nazionali, che hanno funzioni e ruoli consolidati, in quelle locali qualunque Masaniello o “indipendentista” decide più o meno impunemente quale debba essere il lavoro da svolgere per cui si hanno differenti visioni non sempre omogenee: c’è chi ritiene di dover essere equiparato alle forze di polizia nazionali, chi pensa, invece, di fare l’impiegato amministrativo, chi venderebbe l’anima (mi veniva da riferirmi a certa parte del corpo normalmente riparata dal sole ma soprassiedo) per un paio di pantaloni “operativi” e chi pur di starsene in ufficio ha prodotto i più fantasiosi certificati medici (salvo eventualmente resuscitare in occasione di elargizioni monetarie da straordinario elettorale).

Nel marasma c’è da considerare anche la contiguità con la politica per cui succede (o può succedere) che le fazioni in contrasto si appoggino ad una od altra minoranza o porzione della maggioranza per sollevare casi e scandali ad usum Delphini, secondo il noto e masochistico criterio del tanto peggio tanto meglio.

Ci aggiungo una certa antipatia che, evidentemente, suscitiamo in tanta sedicente stampa e informazione varia: i giornalisti (una delle categorie che disistimo al massimo grado, salvo le consuete eccezioni) non perdono occasione per mettere in cattiva luce o sminuire l’operato della polizia municipale (e non mi riferisco agli episodi di malaffare che devono essere stigmatizzati e sanzionati secondo normativa vigente).

Approssimazione, ignoranza bella e buona, malafede? non so, ma certo che articoli quali uno di repubblica motori dei primi di febbraio, rivelano la non conoscenza delle normative e delle competenze di polizia di stato e polizie locali.

Ma è solo un esempio e nemmeno dei peggiori.

Già a partire dall’uso del nome: la stampa ci delizia con il solito “vigili urbani” ma si è mai sentito chiamare agenti di custodia gli operatori della polizia penitenziaria? Anche questo un banale esempio ma che colpisce, se messo in rapporto alla sudditanza che numerosi giornalisti hanno nell’utilizzo del tanto di moda politicamente corretto: oggi i media utilizzano un orribile “ministra”, o “sindaca” perché guai a sgarrare; ma imparare definitivamente “polizia municipale” sembra fatica disumana (aggiungo a onor del vero che ancor oggi tanti colleghi al telefono si presentano dicendo: siamo i vigili urbani …”

Potrei continuare, temo, per molto tempo ancora ma mi soffermo un istante per commentare l’ultimo “sfregio”: pochi giorni or sono una circolare del ministero dell’interno comunica alle prefetture che per i servizi di sorveglianza ai seggi il contributo delle polizie locali non è più necessario; scoppia un piccolo putiferio e, nel giro di pochi giorni i misteriosi problemi amministrativi si liquefanno tanto che il medesimo ministero revoca la precedente circolare e riporta allo status quo.

Insomma nel giro di una settimana è sorto un problema (fino alle ultime elezioni inesistente) e si è sgonfiato senza che si capiscano né l’origine né la soluzione; c’è chi lo vede come uno sgarro (tentato) e chi un tentativo ulteriore di ridimensionarci.

Apro una parentesi per dire che proprio oggi un mio collega mi dice: “ha visto ispettore che il ministero, grazie alle pressioni della triplice, ha revocato quella circolare?” Non gli ho riso in faccia perché sono educato, ma sostenere che CGIL CISL e UIL avrebbero ottenuto un cambio di rotta nella politica governativa nei nostri confronti è talmente comico da sfiorare il ridicolo.

Torno al giro di valzer della circolare: ovvio il silenzio dei media ed altrettanto la delusione di molti colleghi per il tentativo di delegittimazione del nostro ruolo.

Come spesso accade la stampa che conta non ha parlato dello scivolone ministeriale e molti colleghi che hanno commentato la retromarcia la consideravano una nostra vittoria; non ho idea di cosa sia successo a Roma ma è certo che al ministero qualcuno sarebbe bene che se ne andasse a fare altro.

Un giorno vorrei dedicare alcune riflessioni anche sulla figura del nostro santo patrono, san Sebastiano: invito tutti a riflettere sull’iconografia di questo santo martire (ogni volta che posso e riesco fotografo ogni sua rappresentazione, ovunque la trovi, mi piacerebbe creare un catalogo delle sue immagini).

Concludo notando che al governo abbiamo perlomeno due ex sindaci: il presidente del consiglio e il ministro delle infrastrutture, il che la dice lunga su quale interesse amministratori locali una volta divenuti nazionali abbiano verso la nostra categoria.

Mi accorgo di essermi dilungato troppo e non è un buon segno.

Sono convinto che non ci siano speranze di riforma innanzitutto perché l’intero nostro paese non è riformabile.

Non siamo un paese, ma un’accozzaglia di pseudo piccole isolette in lotta l’una con l’altra (e ora in te non stanno sanza guerra / li vivi tuoi, e l’un l’altro si rode / di quei ch’un muro e una fossa serra).

Parafrasando la canzone di Renato Rascel (del 1978 credo) “Sì buonasera”, noi siamo piccoli ma “non cresceremo” e chiudo con Manzoni:

Tornate alle vostre superbe ruine,

all’opere imbelli dell’arse officine,

ai solchi bagnati di servo sudor.

Il forte si mesce col vinto nemico,

col novo signore rimane l’antico;

l’un popolo e l’altro sul collo vi sta.

Dividono i servi, dividon gli armenti;

si posano insieme sui campi cruenti

d’un volgo disperso che nome non ha.

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