Curiosamente le due visite al Museo del Novecento di Milano sono legati alla figura del mio figlioccio; lo visitai nel 2012 poco prima della partenza per Barcellona per una breve vacanza con la famiglia di amici il cui figlio maggiore è il mio figlioccio, l’ho rivisitato poco prima di recarmi alla discussione di laurea del sullodato figlioccio.
Sono entrato nel museo del Novecento attratto dalla mostra temporanea, in chiusura entro pochi giorni, dedicata a Mario Sironi.
Ne ho approfittato per una rinfrescata: il passaggio, in salita, porta di fronte al “Quarto Stato“, celeberrima opera di Pelizza da Volpedo che, come ho più volte ripetuto, può essere tecnicamente valida ma concettualmente non condivisibile: è un’ottima rappresentazione della massa, quella pronta a farsi abbindolare dalle varie ideologie al momento dominanti.
C’è poi il salone dedicato ai futuristi: da sempre questa corrente ha incontrato il mio apprezzamento per i colori vivaci (è risaputo che la sobrietà non è la mia migliore virtù) sebbene, anche in questo caso, con le perplessità inevitabili riguardo al pensiero sottostante.
Il salone dei futuristi sembra la rappresentazione plastica della rivolta verso il padre, del rifiuto dell’idea di eredità: tutto grida ribellione, rivolta contro ogni tipo di passato, di tradizione.
Ripeterei banalità qualsiasi cosa scrivessi: sul futurismo hanno scritto già tutto (come su tutto il resto) quindi non proporrò nuove chiavi di lettura o interpretazione.
Mi viene da collegare quel movimento all’entusiasmo che ha coinvolto tanti giovani in occasione del maggio radioso, ai tanti volontari che vedevano nella guerra un momento di catarsi e rinnovamento: ci sono momenti, nella storia, in cui si affermano certi pensieri, diventano dominanti e inarrestabili per poi finire tra le macerie.
Movimento, progresso, energia, luce: declinate queste parole nel mondo dell’arte ed ecco materializzarsi le opere dei futuristi.
Ma non c’è sono futurismo, anche una serie di opere di artisti molto famosi, testimonianza della fecondità di inizio secolo, cioè inizi del Novecento; alcune catturano l’attenzione, in particolare un’opera di Vasilij Kandinskij, “Composizione” (Studio per “Bild mit zwei roten Flecken”), che, essendo molto colorata, non poteva non piacermi.
Ci sono anche alcune opere di Amedeo Modigliani cui riconosco grande abilità ma che non mi entusiasmano; in particolare il “Ritratto di Paul Guillaume” che l’artista rappresenta con un solo occhio spiegandone così il motivo: “Perché con uno tu guardi il mondo, con l’altro guardi in te stesso“.
Le opere esposte sono tante, impossibile non trascurarne qualcuna.
Sempre attraenti le tristissime e deprimenti nature morte di Giorgio Morandi, riconoscibili ovunque.
Una scultura noto con particolare attenzione, è di Arturo Martini, dal titolo storicamente allusivo: “I morti di Bligny trasalirebbero“, riferito ad un discorso di Mussolini del 2 ottobre 1935; l’opera rappresenta un uomo che sembra sollevare una lastra tombale o almeno reggere con enorme sforzo un lastrone di pietra.
Molto suggestiva, e non per i riferimenti politici quanto piuttosto per l’idea di sforzo, di fatica che assorbe ogni energia, mi ha indotto a pensare a quale pena ci si sottopone ogniqualvolta si accetta di sopportare inutili fardelli che personalmente potrei declinare in preconcetti, discussioni, pregiudizi.
Una bella descrizione della psicopatologia!
Molto bella, di Giorgio de Chirico (ricordate vero che è sepolto a Roma, in San Francesco a Ripa, a Trastevere?) “Autunno” (Figura di giovane donna; Ritratto di Isa in abito nero), deliziosa tela nonostante l’infelice titolo. Un’opera, questa, non “metafisica”, anzi: un bel ritratto, di una bella signora, con un bell’abito. Anche le opere metafisiche che il museo custodisce sono tutte decisamente piacevoli, De Chirico è sempre un artista che sa colpire lo spettatore con quei manichini colorati che trasmettono un che di impersonale ed “eterno”.
Altrettanto piacevole “Donne al caffè” di Piero Marussig e bellissima è “Margherita” di Antonio Donghi, una tela vagamente inquietante: una bella ragazza con un abito dai bei colori pastello regge un cestino di vimini dal quale si accinge ad estrarre lacune mele, mentre due sono già appoggiate sul tavolo davanti a lei.
Il volto è rivolto verso il basso, in direzione delle mele, tanto che la protagonista sembra ignorare del tutto lo spettatore, tutta concentrata nella sua opera.
La capigliatura è perfetta come è improbabile in una contadina, il tavolo e lo sfondo, monocromi, sono del tutto spaesanti perché collocano la figura di donna in un non luogo e in un non tempo, distaccata da ogni relazione.
Sembra un gesto “assoluto”, metafisico, affascinante ed inquietante al contempo.
Molto curiose le opere di Massimo Campigli, tra le quali una intitolata “La scala” ov’è rappresentata una scala affiancata da una serie di ritratti femminili alla moda etrusca; proprio questa è la cifra delle opere di Campigli, un richiamo all’arte etrusca, un modernissimo ritorno all’antico: confesso che la modernità di Campigli non mi è affatto chiara sebbene apprezzi l’esecuzione di opere dai bei colori.
C’è poi un intero salone con busti, ritratti di non so quali personaggi, opere di Marino Marini: purtroppo il tempo tiranno mi fa correre e non ho modo di poterli fotografare uno ad uno, come avrei fortemente desiderato, considerando che adoro la ritrattistica in scultura (da quella romana, meravigliosa, in avanti).
Molte sono ancora le opere da vedere, non tutte interessanti perché, lo ribadisco, molto spesso sono decisamente incomprensibili almeno per le mie capacità di lettura.
Merita la visita, il Museo del Novecento, è una tappa imperdibile di una città splendida com’è Milano ed uno stimolo a mettere in discussione le proprie convinzioni, quindi benvenute anche quelle strampalate creazioni che il museo custodisce.
Milano 23 marzo 2022, giorno della laurea del mio figlioccio