matematica e perversione

Frequentando con certa intensità il sito www.societaamicidelpensiero.com mi sono imbattuto in un interessante contributo, intitolato “pensieri sulla matematica” di una professoressa a me sconosciuta, Ester Leonardi, insegnante di matematica.

La matematica stimola le passioni ed io non mi sono sottratto, lasciandomi andare a qualche ricordo.

Prima di iniziare le scuole elementari mia madre mi faceva impratichire facendo “le aste” cioè seguendo i lati verticali dei quaderni a quadretti, esercizio del tutto inutile ma ritenuto invece propedeutico all’apprendimento della scrittura.

Delle scuole elementari mia madre ricorda, e lo ricordo anch’io, la prima volta che provai a scrivere cucchiaio, con risultati a dir poco antiestetici; un vero disastro!

Inizio duro ma i 5 anni delle elementari sono scivolati via bene salvo la riconosciuta incapacità a disegnare (era brava mia cugina, mi facevano notare, ma evidentemente la parentela non prevede il travaso delle abilità via DNA): l’impedimento al disegno è stato una costante anche alle scuole medie per non dire del liceo, con tanto di esame a settembre, in disegno, appunto (ma era disegno tecnico, non che cambi molto in verità).

Ricordo quando dovevo scegliere quale scuola superiore intraprendere: la presenza di ore di disegno era fonte di una certa preoccupazione e motivo di ansia non indifferente.

In matematica ero bravo.

Alle medie, solito problema di acclimatamento, poi tutto scivola via bene: all’inizio la professoressa appioppa un clamoroso 2 (sì proprio due) a tutta la classe per via del comportamento sciocco di un compagno che aveva fischiato durante una lezione.

Nessuno si era assunto la responsabilità, nè ci furono delatori così il 2 finì a riempire una lunga colonna del registro della prof.

La stessa professoressa, non ricordo se in seconda o terza, ci fece portare in classe dei lombrichi, per la lezione di scienza: fino a lì niente di strano, avevo il mio vasetto di vetro con dentro terra e lombrichi, a casa abbondavano allora ed io li avevo raccolti senza difficoltà con l’ausilio di una cazzuola.

Il problema nacque in classe quando fui, di fatto, almeno così ricordo io, obbligato a manipolarli con le mani, a toccarli, cosa che a me ripugnava; dovetti farlo e ricordo ancora l’espressione della prof che mi guardava con un misto di ironia e distacco misto però a benevolenza tollerante.

Eh già perchè è da dire che ero “il cocco” della professoressa, che io adoravo come anche la prof d’italiano a tacer d’altre: ci intendevamo alla perfezione e con lei mi trovavo non tanto a mio agio ma insomma diciamo che mi sentivo tutto sommato tranquillo.

Ero lo specchio di ogni virtù scolastica o quasi quindi che avevo da temere? ero obbediente, tranquillo, educato, studioso, con buoni risultati

La matematica scivolava via bene, piacendomi; ricordo che quando comunicai alla professoressa la scelta del liceo scientifico rimase delusa perchè lei sperava mi iscrivessi al classico.

E venne l’incubo, il nightmare, lo svedese mardrömmar, il tedesco albtraum, lo spagnolo pesadilla.

La professoressa di matematica del primo anno di liceo fu un’autentica erinni; tra tutte la ricordo come la più … beh mi censuro perchè non intendo offenderla, non è questo lo scopo.

Diciamo che ancora oggi, a 36 anni di distanza, pensando a lei, mi viene d’impulso di augurarle le peggio cose; la ragione mi frena perchè è evidente che non le merita ma lo dico per spiegare quale effetto ebbe sul giovanotto che ero.

Due episodi significativi: fine primo quadrimestre, ci si gioca la sufficienza in orale; la prof chiama alla lavagna un compagno (non so se poi fu bocciato o se ne andò) e gli fa svolgere un esercizio, che dobbiamo fare anche noi al posto; essendo più veloce lo svolgo senza particolari problemi, sul mio quaderno, facendolo bene. Il compagno lo sbaglia e si prende l’insufficienza, la prof lo rimanda a posto e chiama me a continuarlo, io ero così tranquillo e confidente che sono andato alla lavagna e sono riuscito a sbagliarlo, tanto era il senso di timore che la donna imponeva.

Secondo episodio (anche se temporalmente precedente), di cui credo di avere già parlato in altra occasione: compito a casa, scomposizione dei polinomi; faccio l’esercizio e mi viene. Il giorno successivo in classe, ci conoscevamo ancora da poco, quindi con tutte le timidezze degli adolescenti, vedo che il mio metodo non corrisponde a quello che si svolge sulla lavagna.

Ero ancora ingenuo e fiducioso per cui oso alzare il braccio e spiego alla professoressa che io ho provato con un metodo diverso, chiedendo se poteva essere valido anche quello; lei mi invita ala cattedra, guarda l’esercizio e sul quaderno scrive, con la penna rossa: “iabò”, espressione dialettale che sta per “che schifo”.

Ricordo ancora l’umiliazione che provai tornandomene al posto sotto lo sguardo dei compagni ed il terrore che da allora ho sempre provato di fronte a questa donna; terrore ed odio: delle sciagure e dei dolori umani credo di non avergliene augurato uno di meno di quelli possibili.

Mi alzavo alle 5 del mattino a studiare matematica ma non riuscivo mai a fare le cose come si doveva e fui rimandato.

Il cielo mi ha assistito e dopo l’inizio da incubo della seconda, con la ricomparsa dell’odiatissima docente, fortunatamente se ne andò quasi subito in pensione e … mi sono diplomato che avevo quasi 8 in matematica.

Sentirmi trattato in tal modo da una professoressa, figura per me mitica… cito Ester Leonardi “Non sempre è facile seguire il proprio pensiero, in particolare quando gli adulti di cui ti fidi cercano di sviarti, banalizzando quella che tu ritenevi una buona idea…

Penso che mettere a proprio agio chi si vuole occupare di matematica, senza porre fretta inutilmente, sia fondamentale, perché l’esercizio della logica deve essere un piacere…”.
Ho citato due casi che, per la mia esperienza, definirei crimini contro il mio pensiero, due atti di sadismo; nel secondo caso, di perversione.
Nel primo, l’affetto che mi legava a quella insegnante, che ricordo ancora con tenerezza, specie per la morte precoce, mi fa stemperare un po’ il giudizio, quasi lo volessi sminuire un po’ per attenuare la colpa. L’ho pagata comunque cara.

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