Lo sfruttamento della guerra

Eccoci al capitolo IX, intitolato “Lo sfruttamento della guerra“, del libro di Mosse che sto provando a sintetizzare e di cui continuo a raccomandare la lettura perché è davvero un volume interessantissimo.

Rimase, specie nei paesi in cui il ritorno alla normalità fu più lungo e travagliato, l’idea che la guerra mondiale non fosse mai terminata, idea condivisa sia da chi custodiva il mito dell’esperienza della guerra, sia da chi la guerra la odiava: la continuità fu utilizzata dalla destra tedesca per autorappresentarsi come erede dell’esperienza bellica.
Alcuni temi del mito dell’esperienza di guerra, infatti, furono molto in voga, in tempo di pace: i martiri del movimento nazista furono associati ai caduti della Grande Guerra e celebrati con gli stessi simboli, dagli elmetti d’acciaio, alle sacre fiaccole, ai monumenti.
La continuità fu ad ogni livello, ad esempio, nel linguaggio utilizzato dai nazisti e nello spirito di cameratismo d’impronta bellica utilizzato per definire la comunità nazionale.
La lingua fu importantissimo strumento per garantire questa continuità: i nazisti utilizzarono il linguaggio militare piegandolo ai propri scopi; ad esempio il termine Einstaz, che significa “chiamata alla battaglia”, “ordine di marciare”, fu usato per qualunque servizio richiesto dallo Stato o dal Partito, oppure “fronte” designò le organizzazioni naziste che rappresentavano l’avanguardia del terzo reich.
Il vocabolario di guerra fu utilizzato anche durante la Repubblica di Weimar e pure da altri partiti, di destra e di centro, perché questo linguaggio era ormai tipico del Volk e della razza, diffusissimo nel periodo tra le due guerre, in Germania.
I nazisti utilizzarono molto anche lo stereotipo dell'”uomo nuovo”, ovvero dell’uomo forgiato dall’esperienza di guerra; Hitler, quando parla di uomo nuovo, infatti, si riferisce sempre a quelli nati dall’esperienza della prima guerra mondiale, di cui definisce anche i tratti salienti: agile, snello e che deve incarnare l’ideale di bellezza germanico.
Lo stesso travaglio del dopoguerra fu vissuto in Italia dove, però, non vi fu l’esperienza dei Corpi Franchi anche se si costituirono varie squadre paramilitari, in un paese fortemente diviso; il fascismo utilizzò, come i nazisti, il tema della guerra permanente anche se fu minore il disprezzo per la vita umana rispetto ai Corpi Franchi. Un aumento della violenza, anche nei toni, si ebbe quando, negli anni Trenta, Mussolini tirò le briglie e, di ritorno da un viaggio in Germania, affermò che gli italiani avrebbero dovuto diventare duri ed implacabili come i tedeschi; a seguito di quel viaggio ordinò che i funzionari facessero ginnastica e indossassero l’uniforme fascista.
Anche in Italia l’evocazione continua della guerra e la preparazione ad un nuovo sacrificio per la patria ebbe un effetto brutalizzante, tuttavia la tradizione nazionalista italiana era ben differente da quella bismarckiana del ferro e del sangue che aveva creato il Reich tedesco.
Anche Mussolini pensava ad un uomo nuovo, un soldato fascista pieno di fede, volontà e coraggio, tuttavia, questo uomo nuovo era totalmente diverso da quello germanico: non ancorato al passato, ma anzi rivolto al futuro in vista della creazione del nuovo stato fascista.
Qualunque fosse il tipo di uomo nuovo (comunque molto simile nell’idea di virilità che italiani e tedeschi condividevano) questo era comunque legato all’esperienza della guerra ed improntato su uno stile militaresco che prevedeva ordine, disciplina, coraggio, determinazione.
Anche il nazionalismo ebbe parte importante nel suscitare emozioni, ed anche in questo caso fu il nazismo ad approfittarne: essi crearono il “soldato politico” ideale, che era una miscela di realismo e romanticismo, sobrietà ed emozione; nelle scuole di elite naziste Napol, scuole politiche nazionali, il tema del romanticismo del suolo e del sangue era molto trattato, ma gli esempi del passato indicati ai giovani erano sempre molto sobri: quel che doveva prevalere, come il passato testimoniava ed indicava, sull’idea romantica e sullo slancio emotivo erano l’ordine e la disciplina, insegnati ovunque, dal corpo degli ufficiali prussiano, ai collegi dei gesuiti alle pubblic school inglesi.
Le Napol educavano concretamente questi uomini nuovi cui inculcavano autodisciplina ed indifferenza alla morte, sebbene esigessero anche l’adesione all’ideologia “romantica” nazista; i giovani dovevano anche essere razzialmente puri e dall’aspetto onesto, insomma il vecchio tipo razziale perfezionato dalla guerra e proiettato nel futuro.
Oltre la parola l’esperienza visiva ebbe ruolo fondamentale nella continuità tra le due guerre: oltre ai monumenti furono utilizzati manifesti e immagini tratte dalla prima guerra mondiale, per invitare i tedeschi ad assolvere a doveri di vario tipo.
Anche le cerimonie commemorative furono strumento utile a tenere vivi ideali ed atteggiamenti della Grande Guerra.
La maggior parte dei libri illustrati pubblicati in Germania negli anni Venti e Trenta comunicava un’immagine positiva della guerra; anche se non mostravano morti e feriti, erano realistici nel rappresentare i danni ma mai nel rappresentare la morte, elogiando così eroismo ed audacia ed omettendo il prezzo da pagare in vite umane.
Più influenti dei libri illustrati furono i film di guerra, ai fini di mantenere la continuità tra i due eventi bellici: fino agli anni Venti e Trenta la maggior parte delle pellicole trattava ancora la guerra come un’avventura, anche se cominciarono a comparire film più seri.
Nell’immediato dopo guerra, in realtà, non furono prodotte pellicole di guerra, come anche romanzi dello stesso tema, ma solo dei film surrogati che mantenevano viva l’idea della virilità aggressiva, come quelli di montagna o sportivi, mentre quasi un decennio dopo ci fu un’autentica esplosione.
La maggior parte dei film, ad esclusione di quelli puramente propagandistici, proponeva l’ideale della virilità aggressiva, ma questo non era l’unico tema, per l’ovvio fatto che i film, essendo fondamentalmente intrattenimento, non potevano chiudersi in una visuale così ristretta.
La stessa cosa successe in Italia, dove non vi fu mai uno schematismo fisso; qui a partire dagli anni Trenta prese piede il tema della conversione del giovane traviato al fascismo che lo redime ad una virilità correttamente intesa (vedasi Passaporto rosso di Guido Brignone).
I film seri sulla guerra, tuttavia, furono numerosi e proposero al pubblico le immagini tragiche e cruente della guerra, quelle stesse che durante il conflitto erano state accuratamente evitate, ciononostante questi film non avevano intenti pacifisti eccettuato il solo Niente di nuovo sul fronte occidentale, del 1930.
Se è vero che il realismo dei film fu maggiore rispetto a qualsiasi altro media resta il fatto che la maggior parte delle pellicole rappresentava un’immagine della guerra comunque disinfettata, e banalizzata dall’essere trasmessa come intrattenimento. I film che non banalizzavano la guerra ne sottolineavano, comunque, degli aspetti, quali il cameratismo, di serietà morale.
I film non propagandavano direttamente l’uomo nuovo, che restava comunque adombrato, ad esempio, nelle risse tra commilitoni, sebbene non vi fosse direttamente l’intenzione di esaltare la guerra, la valorizzazione di ideali come cameratismo, coraggio e sacrificio suggerivano comunque alla guerra dei tratti di nobiltà.
La maggior parte dei film sostenne il mito dell’esperienza della guerra: come nei libri illustrati, prevalevano le scene di paesaggi devastati a discapito di scene di morti e feriti, rimase vivo comunque un certo realismo che toccò il culmine col secondo conflitto mondiale; le note aspre che tra le due guerre avrebbero potuto disturbare il consolidarsi del mito non furono, invece in grado di scalfirlo e la guerra continuò ad essere percepita, da moltissimi, partiti politici inclusi, come un’avventura, dedizione e speranza per il futuro.
La destra politica fu il motore di questa continuità che tentò di concretizzare nelle scelte politiche nazionali.
La guerra civile spagnola, nel 1936, evidenziò questa continuità e ne ampliò il raggio, coinvolgendo non solo la destra ma anche la sinistra politica: fu l’evento armato che, dopo la rivoluzione bolscevica, eccitò l’immaginazione europea.
Nacque una nuova ondata di volontari, risvegliando la tradizione legata al mito dell’esperienza della guerra: la maggior parte dei volontari si arruolò in difesa della repubblica e furono essi a determinare l’immagine della guerra nel mondo; la guerra civile spagnola offrì ai volontari l’opportunità di giocare un ruolo ideologico e segnò il risveglio politico delle generazioni postbelliche, specie nei paesi democratici.
La guerra civile spagnola dimostrò che il mito dell’esperienza della guerra aveva attecchito anche nell’ambito della sinistra politica anche se vi aveva giocato un ruolo assai meno importante.
I giovani volontari in Spagna furono paragonati ai giovani che erano partiti per le Fiandre nel 1914; le motivazioni erano le stesse: persuasione ideologica, cameratismo, avventura, libertà dai vincoli sociali, anche se lo spirito assumeva connotazioni diverse, il cameratismo, ad esempio, era di stampo più cosmopolita (anche se la fazione comunista, legata all’Unione Sovietica, arrivò a dominare il campo).
Per la seconda volta i volontari costruirono il mito dell’esperienza della guerra e come nella Grande Guerra, vi furono scrittori e artisti che concretizzarono in prosa, versi o canzoni il loro entusiasmo.
Essi costituirono il mito, che parlava di loro stessi, anche se, in realtà, la maggior parte dei volontari era costituita da operai ed il mito fu trasmesso, ad esempio, con le canzoni esattamente come le canzoni erano state utilizzate dai volontari della Grande Guerra.
Le canzoni, molto politicizzate, vennero composte utilizzando temi popolari o create da intellettuali di sinistra e, per la prima volta, furono dedicate anche a eroi individuali, come Hans Beimler, capo dei commissari politici delle brigate internazionali; i volontari cantavano anche le consuete canzoni di guerra (amata lasciata a casa o lamentele sulle condizioni della vita militare) ma l’ideologia fu sempre messa deliberatamente in primo piano.
Questo tipo di canzoni rientravano nel genere delle canzoni folkloristiche di carattere politico che era molto popolare sia in Germania sia in Inghilterra che negli Stati Uniti, canzoni eseguite nei concerti e diffuse coi dischi.
Contemporaneamente opuscoli, libri e conferenze diffondevano lo stesso messaggio ed il cinema fece la sua parte cercando di propagandare l’immagine della guerra di popolo, utilizzando tra gli altri, ancora una volta, anche i temi cristiani e adeguandoli alla realtà popolare: il popolo crocifisso è associato a Cristo.
Il movimento antifascista europeo trovò nelle brigate internazionali la sua voce o comunque attraverso di esse ottenne una ribalta come mai era accaduto in passato, nonostante le lacerazioni interne ai volontari.
Fu prestata una certa attenzione a distinguere le motivazioni delle brigate da quelle dei corpi franchi: questi combattevano per il gusto di combattere, quelle per la libertà, ma l’entusiasmo e la propensione mitopoietica sicuramente li accomunava.
Una vena romantica caratterizzava la scelta di molti volontari che abbandonarono le precedenti scelte pacifiste per correre a combattere in Spagna (ad esclusione, ovviamente, dei comunisti che costituirono la stragrande maggioranza dei combattenti), un romanticismo che li accomunava alle generazioni precedenti, compresa quella del 1914.
L’esperienza della Grande Guerra venne normalmente sottaciuta dai creatori del mito della guerra spagnola anche se saltuariamente riemergeva come riferimento, un riferimento che suscitava invidia piuttosto che pietà e questa fu trasferita sulla guerra spagnola; la glorificazione della guerra, stavolta, non fu per la guerra in se stessa, ma venne indirizzata proprio alla guerra in corso che aveva lo scopo precipuo di sconfiggere il fascismo ovunque questo si fosse presentato, in patria o all’estero.
I caduti della guerra civile spagnola non furono onorati come caduti in guerra ma come eroi rivoluzionari, assimilati a quelli caduti durante la rivoluzione russa.
La continuità tra le due guerre toccò la destra più della sinistra e quest’ultima in modo più formale che sostanziale; a sinistrala guerra venne comunque considerata difensiva piuttosto che offensiva e non fu vista come scommessa per il futuro, era tuttavia un evento troppo presente ancora per poter essere lasciato da parte. I combattenti della guerra spagnola si consideravano come guerrieri del bene contro il male e perciò idealizzarono e crearono pure loro un proprio mito dell’esperienza della guerra: la guerra era un evento che consumava la loro vita, in continuità con l’esperienza della guerra mondiale e con significativa somiglianza all’esperienza delle brigate internazionali delle SS durante la seconda guerra mondiale, subito prima che i volontari uscissero di scena portandosi con sè il mito dell’esperienza della guerra.
Diverso il ruolo dei volontari franchisti, sia a causa dell’esiguo numero sia per le diverse scelte operate dal Caudillo che non intendeva diffondere la cultura della guerra; Franco insistette sulla necessità della religione, del fanatismo e del “pensiero viscerale”, ideali inadatti agli intellettuali europei che furono i diffusori del mito delle brigate.
I volontari franchisti, inoltre, non combatterono in brigate autonome ma in una divisione chiamata Tercio, al comando di ufficiali spagnoli; i loro numeri furono esigui e perlopiù essi si concepivano come novelli crociati contro il comunismo; questi crociati cattolici non fecero proprio il mito dell’esperienza di guerra che era un culto di carattere civico.
I volontari italiani erano, in realtà, o militari o appartenenti alle camice nere, i primi avevano un aumento di stipendio i secondo erano motivati, generalmente da interessi economici o disadattamento sociale: più anziani della media degli altri coinvolti nel conflitto, combatterono male e non odiavano il nemico; più che volontari erano delle reclute del regime fascista.
La Legione Condor inviata da Hitler era un prolungamento del regime nazista in cui era molto più evidente la continuità con la Grande Guerra: i loro morti erano assimilati ai caduti della guerra mondiale.
Il mito dell’esperienza della guerra fu garante della continuità tra i due grandi eventi bellici mondiali e la sua forza è evidenziata anche dalla speculare storia del pacifismo.
Al termine del primo conflitto, alcun pacifisti tedeschi considerarono l’evento come il loro miglior alleato; fu creato un movimento pacifista che tentò di offrire una base di massa al pacifismo tedesco, questo tuttavia ebbe successo fino a che poté contare sul sostegno del partito socialdemocratico e dei sindacati, ma questa alleanza durò poco perché il movimento “Mai più guerre” collaborava con analoghe organizzazioni inglesi e francesi il che faceva sospettare che rafforzasse il trattato di Versailles, a ciò si aggiunsero i conflitti interni tra i capi che portarono al fallimento del tentativo di dare una base popolare al pacifismo tedesco già nel 1928.
Una parte di pacifisti continuò a esistere all’interno del partito socialdemocratico ma ebbe vita dura poiché fu, di fatto, sterilizzato dalla necessità di difendere la Repubblica di Weimar sia dagli attacchi della sinistra estrema sia da quelli della destra e questo comportò, tra l’altro, la creazione di un’organizzazione paramilitare, la Reichsbanner.
Il fallimento del pacifismo tedesco, ridotto ad una setta o poco più, non fu dovuto solo alla litigiosità interna, alle secessioni e all’incapacità dei gruppi dirigenti; la vera difficoltà fu dovuta allo status di nazione sconfitta in cui tutte le forze in causa erano chiamate a pronunciarsi sulla questione, altamente emotiva, delle responsabilità della guerra. La destra, inoltre, giunse a dominare il dibattito politico e costrinse gli avversari ad una posizione difensiva, impose come tema le rivendicazioni nazionalistiche che misero fuori gioco il pacifismo e i suoi sostenitori.
Il pacifismo fu debole anche in Italia dove venne infine schiacciato dall’avvento al potere del fascismo, anche se fino ad allora il partito socialista aveva mantenuto posizioni pacifiste.
Il pacifismo francese riuscì a mantenere un’ampia base all’interno del partito socialista, ma il movimento pacifista più forte fu indubbiamente quello inglese, sia per il fatto che la transizione verso la pace fu abbastanza tranquilla sia per la tradizione evangelica che sosteneva i movimenti pacifisti (cosa che non avvenne col protestantesimo tedesco).
In Inghilterra il pacifismo poteva, quindi, essere vissuto come atto di fede; a ciò si aggiunga che il Labour Party lo sostenne a differenza di quanto fecero i socialdemocratici tedeschi in Germania ed infine la causa della Società delle Nazioni sostenne i movimenti pacifisti anglosassoni mentre, al contrario, veniva considerata un strumento dei vincitori dagli sconfitti teutonici.
L’ostacolo maggiore al pacifismo di sinistra fu comunque rappresentato dalla guerra civile spagnola.
Il pacifismo restò una sparuta minoranza, tra le due guerre, e non ebbe alcun rilievo politico significativo; al contrario ebbe un certo rilievo la letteratura pacifista ed in particolare il famosissimo Niente di nuovo sul fronte occidentale, che fu temuto dagli antipacifisti e “svilito” da certa sinistra che lo trattò come un libro di avventure belliche.
Curiosamente il film, del 1930, tratto dal libro venne ritirato, subito nel 1930, dalla Repubblica di Weimar (su pressioni della destra) perché accusato di minacciare l’ordine costituito in patria e ledere il prestigio della Germania nel mondo.
Nel suo insieme la letteratura tedesca tra le due guerre mise in risalto gli aspetti del mito dell’esperienza di guerra: cameratismo, comportamento soldatesco, culto dei caduti, esaltazione dell’eroismo del cosiddetto”uomo nuovo”; su questo il pacifismo non fu in grado di influire, assediato da entrambi i lati dello schieramento politico, con la destra nazionalista che vedeva nella guerra il modo per riconquistare i territori perduti e con la sinistra che combatteva il fascismo nella guerra di Spagna.
Il secondo conflitto mondiale cambiò la memoria della guerra e pose fine alla considerazione che questa aveva goduto a partire dalla rivoluzione francese e dalle guerre di liberazione tedesche; essa minò l’efficacia dei miti e dei simboli che avevano ispirato il culto della nazione e lo stereotipo dell’uomo nuovo soldato.

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