La vita che verrà

La vita che verrà, di Romain Gary, è un romanzo che avevo acquistato, tempo, fa, su sollecitazione dell’amico Gabriele Trivelloni, a sua volta invitato a leggerlo da un’amica.

Me lo sono bevuto con grande rapidità, come spesso mi accade per le opere che mi piacciono (o per le ciliegie); contrariamente a quel che mi accade usualmente, non mi sono commosso, sebbene l’apprezzamento sia stato davvero totale.

Mi è piaciuto il modo di scrivere, la narrazione di questo giovinetto, così poco paludata ma competentemente critica.

Gabriele ne ha scritto un breve saggio che mi sono andato a riprendere.

Alcuni episodi mi hanno interessato particolarmente: la ricomparsa del padre islamico di Momò, il giovane protagonista, è uno di questi.

L’uomo, uno psichiatrico uscito dal carcere dopo avere scontato una (mai abbastanza) lunga reclusione per avere ucciso la propria moglie, la madre di Momò, prostituta che lavorava con ottimi guadagni, torna a cercare il proprio figlio e si lamenta quando scopre (cioè gli viene fatto credere) che questi è un bambino ebreo e non musulmano.

Mi è venuta in mente una citazione evangelica: “Non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù.”(Galati 3,28).

San Paolo riesce a formulare in estrema sintesi quello che anni dopo, tramite Freud e Lacan, Giacomo Contri tradurrà in “principio di non obiezione” o meglio “non obiezione di principio”: il bene è ricevibile tramite chiunque e non ci saranno obiezioni di principio alla sua ricevibilità.

In effetti la prostituta, seppur nel compromesso, è una che non ha obiezioni rispetto alla clientela e lo stesso Momò sembra muoversi secondo questo buon principio.

La seconda nota ha a che fare col … culo; in tutto il romanzo ci si riferisce praticamente solo a quello; dall’accenno alle prostitute che si difendono con quello a Madame Rosa che ha vissuto vendendolo, allo stesso Momò cui dicono che sarebbe un brutto mestiere, per lui, quello, sempre di venderlo.

I genitali femminili sembrano scomparire, tutto fa riferimento al monosessuale fondoschiena, un po’ il complemento del fallo; perchè se rapporto difficile, tramite il fallo (obiezione di principio) ha da essere, questo non può che essere un ideale complemento,  il colmare una mancanza, via masochismo.

Un altro tema interessante è la paura di madame Rosa che Momò possa essere ereditario, cioè erede della malattia del padre, secondo un principio di causalità che si scontra frontalmente con la predilezione che la donna, in realtà, gli dimostra; predilezione che si fonda, però, sull’inganno di voler mantenere il ragazzo bambino.

Se Momò cresce rischio di perderlo, questo è il pensiero di Madame Rosa che preferisce l’imbroglio infantilizzante all’idea di partnership basata sul giudizio di convenienza.

Il giovane ruba, fantastica di diventare un terrorista (poi cambia idea), sbeffeggia una cassiera mostrandole il fallo, pensa di fare il “prossineta”, si crea amici immaginari, tutto ruota attorno alla domanda “si può vivere senza amore?” che direi è la chiave di lettura del libro.

Amore e diversità come emerge chiaramente dal dialogo tra Momò e il dottor Katz che preconizza al giovane un futuro di diversità, come lui aveva sempre saputo; nel dialogo c’è un folgorante scambio di battute: “sei ancora troppo giovane per capire, ma … Non si è mai tropo giovani per niente, dottore, date retta alla mia vecchia esperienza”; il giovane che si difende dalle insidie del medico e lo conferma nella sua diversità da possibile futuro ribelle: il pensiero giudicante sembra condannare … alla ribellione.

Un romanzo attualissimo nella sua educazione sentimentale necrofila.

Una volta posta la domanda “si può vivere senza amore?” essa continuerà a richiedere, anzi pretendere una risposta e dal tenore di quella risposta dipende la civiltà.

Giacomo Contri ha spesso citato Manzoni: “La sventurata rispose”; Momò risponde a quella domanda diventando il partner necrofilo della fu Madame Rosa; l’apparente buona conclusione del romanzo, mantiene viva la questione: “Io penso che avesse ragione il signor Hamil quando ci aveva ancora tutta la testa e che non si può vivere senza avere nessuno da amare, ma non vi prometto niente, bisogna vedere”.

In fondo la domanda sull’amore mostra l’ingresso di Momò nel mondo dell’inganno che fino a quel momento aveva bellamente ignorato in virtù dell’errore sull’età: il bambino non si pone il problema del vivere senza amore perché sa bene dove trovare ed ingraziarsi chi lo possa trattare bene. Non è un problema del bambino vivere senza amore.

La stessa questione si pone per i tanti giovani che oggi trovano nell’estremismo islamico la realizzazione della propria vita, fino al suicidio nella guerra santa; essi hanno fornito una risposta alla domanda di Momò, il che ha a che fare con la religione, ma questo è un altro discorso.

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