Siamo all’XI capitolo del bellissimo libro di George L. Mosse dedicato al razzismo; in questo caso specifico si affronta la questione della consuetudine alla violenza che la guerra aveva comportato, assieme alla vittoria dello stato nazione e degli ideali di cameratismo che tanto operarono nel mondo dell’estrema destra e non solo.
Non mi dilungo oltre, ecco il sunto:
Fu la Grande Guerra, con le sue conseguenze che permise al razzismo di realizzarsi politicamente in Europa; se la teoria razzista era già ampiamente diffusa, le conseguenze belliche ne permisero la pratica: gli ebrei, la più importante minoranza vivente in Europa, avevano assunto il ruolo del nemico e con la guerra anche la visibilità e l’isolamento che permetteva una più semplice persecuzione, aiutata dalla consuetudine alla violenza che permase anche dopo la fine degli eventi bellici.
Un contributo venne anche dalle rivoluzioni degli anni 1918-20 ma fu la prima guerra mondiale coi suoi cascami di cameratismo, eroismo e attivismo, ben inquadrati nella cornice della mistica nazionale, a dare forza ad un nazionalismo che poteva mirare, indifferentemente, alla liberazione nazionale o alla vittoria su un nemico, il tutto accompagnato anche dall’assuefazione alle uccisioni di massa che la guerra aveva comportato.
Le conseguenze belliche non avevano connotazioni razziste, ad esempio il cameratismo, ma tutte si fecero infiltrare dall’ideologia razzista quando questa assunse forza sufficiente.
All’inizio di questa storia sembra la Francia la culla del razzismo, ma che il baricentro stesse transitando verso la Germania lo si può cogliere da un’iniziativa che fu esclusivamente tedesca: le statistiche sulla partecipazione ebraica nelle forze armate compilate dal Comando supremo nell’ottobre del 1916.
Gli ebrei avevano visto nella guerra un’occasione per raggiungere la completa assimilazione ma non era questo il pensiero diffuso: la mancata diffusione della statistica, l’esercito sosteneva di aver ricevuto lamentele sul fatto che gli ebrei o erano stati esentati dal servizio militare o se ne erano sottratti trovando posti sicuri nelle retrovie, contribuì ulteriormente al clima di sospetto nonostante gli ebrei, al contrario, fossero favorevoli alla pubblicazione che avrebbe smentito le accuse nei loro riguardi.
Di grande importanza si rivelò, comunque, quel mix di ideali sorti durante la guerra; in particolare la guerra di trincea, col suo coinvolgimento totale, aveva rinvigorito il senso di cameratismo, di appartenenza, ed aveva comportato anche l’esaltazione di quei corpi di soldati scelti che guidavano gli assalti contro il nemico, le “truppe d’assalto” che balzavano dalle trincee sotto il micidiale fuoco del nemico.
Il cameratismo fu il cemento di una costante opposizione alla democrazia liberale, priva di ideali e soddisfatta di sè.
AL cameratismo si aggiunse anche quello spirito che si diffondeva dal campo di battaglia, come ben descrisse, in Italia, Gabriele D’Annunzio che contrapponeva le truppe d’assalto (il cui simbolo era una fiamma nera), simbolo di rigenerazione personale e nazionale, alla degenerazione della modernità.
Le virtù di questi combattenti avevano, com’è intuibile, anche valenza esteriore: il loro aspetto fisico, secondo gli stilemi classici elaborati a partire dal secolo XVIII non poteva essere indifferente, la bellezza virile dei soldati prevedeva il loro essere biondi e avere forme classiche, come testimoniano le lettere dal fronte di Otto Braun “Dagli scritti postumi di un giovane prodigio” (“Aus Nachgelassen Schriften eines Frühvollendeten”, o la vita dell’inglese Rupert Brooke «il giovane Apollo dai capelli d’oro».
Questa “comunità” non erano razziste, in origine, ma offrivano rifugio in un ideale di solidarietà maschile unita da bellezza e sacrificio, ideali diffusi in tutta Europa anche se con sottolineature diverse: in Francia non si parlava del colore dei capelli e in Italia si sottolineava lo spirito guerresco piuttosto che l’aspetto fisico ma lo spirito era il medesimo.
Questo ideale di uomo fece comunque presa in varie nazioni ed alimentò il razzismo ma fu la Germania che ebbe il più famoso esponente teorico, Ernst Jünger, un autore che esaltò il combattimento come la più intima esperienza dell’uomo, capace di generare una nuova razza di eroi: «… una razza completamente nuova, energia fatta persona e colma d'”élan”. Corpi agili, sottili e muscolosi, volti risplendenti con occhi che hanno visto migliaia di orrori. Questi sono gli uomini che vinsero, uomini d’acciaio…».
Gli uomini descritti da Jünger rappresentavano la miglior volontà nazionale, i cui nemici non potevano che essere espressioni di razze inferiori, rivoluzionari, massoni e spessissimo, ebrei.
La carneficina della Grande Guerra indusse ad una brutalizzazione delle coscienze che o si rassegnarono all’inevitabile o operarono l’esaltazione di quanto di tremendo accaduto: il cameratismo univa così chi aveva rifiutato la volgarità dell’esistenza quotidiana in vista del supremo sacrificio.
La morte in guerra divenne addirittura una “imitatio Christi”, con relativa resurrezione; i tedeschi sconfitti arrivarono a sostenere che i soldati defunti in realtà non muoiono mai bensì continuano, risorti, a combattere non solo nel Valhalla, ma nel cuore di ogni patriota: la sconfitta non doveva, quindi, indurre la rassegnazione ma esortare alla lotta per la resurrezione.
Idee non diverse propagandò anche D’Annunzio in Italia: la resurrezione, in realtà un pallido surrogato, la si ottiene nel perpetuo scorrere delle nuove generazioni al servizio degli ideali nazionali.
Da tale destino di eternità era escluso, logicamente, il nemico che moriva di una morte diversa e definitiva, il che avrebbe avuto le sue conseguenze anche verso gli ebrei.
Tornarono in vita anche i segni del dolore, corpi mutilati e cadaveri su campo di battaglia furono riprodotti dai libri illustrati, di moda all’epoca, e senza orrore, anzi essi costituirono motivo di rimpianto per i giovani che quell’occasione avevano mancato per motivi d’età, una sorta di sfida virile perduta.
La Germania, inoltre, subì un’occupazione negli anni 1919-20 ad opera della Francia che utilizzò delle truppe marocchine e senegalesi della sua armata del Reno; nel 1920, a fronte dell’occupazione di Francoforte sul Meno ci fu la reazione indignata, di massa ed organizzata dei tedeschi che lamentavano che «i negri senegalesi» stavano profanando l’università di Francoforte e la Casa di Goethe.
La stessa neonata repubblica tedesca sfruttò questa «violenza negra alla Germania» per avere simpatie anche dall’estero.
Furono quindi i neri e non gli ebrei i primi destinatari dell’accusa di “Kulturschande” («violenza alla cultura»); questi furono oggetto di preoccupazioni razziste ma anche, quasi inevitabilmente, di preoccupazioni sessuali, considerando la fama sessuale dei neri, ritenuta superiore a quella dei bianchi.
Accuse sostenute da giornali e libri vari che non svanirono tanto velocemente, anzi; in questi timori comparivano comunque anche gli ebrei accusati di essere corresponsabili dell’occupazione e di combattere una «guerra negro-ebraica» contro i tedeschi; tale fu il turbamento provocato da questa occupazione (e la solidarietà da parte di paesi come gli USA) che nell’occupazione della Ruhr nel 1923-24 i francesi si guardarono bene dall’utilizzare nuovamente truppe di colore.
Se i neri furono la miccia, l’incendiò divampò con gli ebrei sui quali si trasferì velocemente l’attenzione razzista: nei “pamphlets” e nei romanzi sugli anni dell’occupazione erano i negri a violentare le donne tedesche ma già nel 1918 fu pubblicato un romanzo di Arthur Dinter “Il delitto contro il sangue” (“Die Sünde wider das Blut”) che proponeva una questione ben più subdola: un ricco ebreo sposa una donna tedesca; sebbene questa poi lo lasci per sposare un ariano, i loro figli mantengono i caratteri dello stereotipo ebraico. La questione, insomma, della purezza razziale, irrimediabilmente compromessa.
Altri motivi di inquietudine vennero da un episodio accaduto ad Amburgo nel 1919: la comunità ebraica dovette denunciare la polizia che aveva affisso manifesti di ricerca di un criminale descritto come «un grasso ebreo» dal «naso ebraico»; contemporaneamente nella Baviera settentrionale la polizia sosteneva che l’antisemitismo, pur deplorato, era inevitabile perché «ha le sue radici nelle diversità di razza che separano la tribù israelitica dal nostro “Volk”».
L’ebreo fungeva da capro espiatorio di un’instabilità angosciosa: tra il 1918 e il 1920 nei paesi ov’erano accadute o minacciate delle rivoluzioni vi fu un’impennata del razzismo; gli ebrei erano visti come leader (Béla Kun in Ungheria) rivoluzionari bolscevichi, il che era del tutto inesatto.
Se vi fu chi partecipò attivamente alla vita politica (di sinistra) e alle rivoluzioni, questi lo fecero spesso perché si aspettavano poi vera eguaglianza e fine delle discriminazioni; partecipazione legittima e comprensibile, peraltro molto marginale quantitativamente, ma utile, ancora una volta, ad attizzare il fuoco dello stereotipo.
Nello specifico il collegamento fu tra caduta del vecchio ordine e rivoluzione bolscevica: gli ebrei, in questo, erano «antinazionali» e quindi pericolosi nemici, specie per chi, in Germania, una neonata destra radicale, nata da sconfitta e umiliazioni, intendeva liberare la patria dai rossi e, appunto, dagli ebrei.
Fu nell’Europa orientale, Germania ed Austria comprese, che attecchì questo pensiero, paesi in cui gli ebrei avevano acquistato una visibilità che sicuramente non avevano ottenuto in egual misura in Francia e in Inghilterra.
In questi paesi, alla consueta accusa di essere degli sfruttatori capitalisti, gli ebrei assommarono anche quella di rivoluzionari, divennero insomma dei rivoluzionari sfruttatori, che fu il passo utile per arrivare alla teoria della cospirazione ebraico-capitalista-bolscevica, punto di raccolta di tutti i nemici della liberazione nazionale.
In questa situazione comparvero i famosi e famigerati “Protocolli dei saggi anziani di Sion”, che i reazionari Cento Neri, fuggendo dalla Russia, avevano portato con loro.
La Russia, in effetti, sembrava essere il fulcro della cospirazione ebraico-bolscevica che da lì avrebbe preso il potere in ogni nazione europea ma, se nella maggioranza di questi l’effetto razzista non fu particolarmente significativo, nella sconfitta e rivoluzionaria Germania si ebbero reazioni diverse.
Tra queste ci fu l’opera di Fritz Halbach intitolata “Kamerad Levi” un romanzo che ipotizzava un’alleanza tra un ricco padre banchiere ed un figlio giovane agitatore comunista, entrambi interessati al dominio sul mondo, seppur su barricate diverse; inutile dire quale fosse la razza di appartenenza dei protagonisti.
Hitler diede tal credito alle teorie complottiste ebraico bolsceviche da ordinare, durante la campagna di Russia, l’immediata esecuzione di qualsiasi commissario politico bolscevico catturato.
L’attenzione focalizzata sugli ebrei non produsse “pogrom”, ma in tutta Europa varie organizzazioni sociali e culturali adottarono provvedimenti restrittivi nei loro riguardi: dal certificato di arianità delle confraternite studentesche tedesche, al numero chiuso delle organizzazioni studentesche nazionali di tutta l’Europa orientale; dalla politica antisemita delle destre (per fini elettoralistici), all’esclusione dalle associazioni dei reduci di guerra.
Se Germania e Austria non videro particolari disordini (ma con l’avvento del nazismo ovviamente le manifestazioni aumentarono, più o meno spontaneamente), l’Europa orientale vide, invece, un clima di violenza dovuto anche al fatto che spesso gli ebrei costituivano la classe media, quindi più esposta, ed erano stati pure rivoluzionari, in territori che, essendo vicini all’Unione Sovietica, suscitavano sicure preoccupazioni.
Gli imperi dissolti di Russia ed Austria Ungheria avevano lasciato il problema di una sovrappopolazione rurale non accompagnata da uno sviluppo industriale sufficiente ad assorbirla; le soluzioni prospettate erano o una rivoluzione guidata dai sovietici o la perpetuazione a loro favore della situazione di miseria esistente.
Ancora una volta l’idea di capitalista sfruttatore e rivoluzionario.
A questa scomoda posizione, gli ebrei dell’Europa centrale dovettero aggiungere la progressiva perdita di potere cui stavano andando incontro: se un tempo la loro funzione sociale era imprescindibile (sostegno economico ai grandi proprietari terrieri, detentori del potere politico), le condizioni postbelliche, invece li resero superflui e oggetto dell’odio come rivoluzionari, come oppressori capitalisti e come rivali della classe media
L’Europa centrale ed occidentale, al contrario, non aveva mai visto gli ebrei in una situazione così indispensabile, oltre al fatto che la classe media era di ispirazione liberale ma questo, se impedì persecuzioni e massacri, non fu comunque un valido argine all’avvento del razzismo.
Nell’Europa orientale, dove questi baluardi non esistevano, i “pogrom” non tardarono a scatenarsi contro gli ormai inutili ebrei: quelli del 1918 furono tra i più spietati mai avvenuti a memoria d’uomo.
La Polonia, in particolare vide con particolare sfavore i tre milioni di ebrei che vivevano nel paese; l’idea della cospirazione ebraico-bolscevica prese piede durante la guerra contro l’Unione Sovietica del 1920, quando ufficiali e truppe ebree polacche vennero escluse dai combattimenti quando non addirittura internate.
Un antisemitismo molto diffuso in esercito e chiesa, in uno stato risorto come polacco e cattolico, che divampò tra le due guerre nonostante la benevolenza e persino l’amicizia dimostrata dalla dittatura del maresciallo Józef Piłsudski, andata al potere nel 1926; tuttavia nel 1935, alla morte di Piłsudski la situazione peggiorò in conseguenza dell’alleanza del partito conservatore e dei democratici nazionali con i militari, veri detentori del potere; vennero adottati provvedimenti antisemiti che spaziavano dai banchi speciali nelle università al boicottaggio economico favorito da chiesa e stato.
L’ultimo capitolo si ebbe nel 1938 quando i nazisti espulsero dal Reich 15000 ebrei polacchi che la Polonia rifiutò di accogliere nonostante fossero suoi cittadini, non certo un buon segnale per il futuro incombente.
Il governo che succedette a Piłsudski sosteneva che gli ebrei fossero di nazionalità diversa e quindi non assimilabili; pur dichiarando di rifiutare il razzismo il governo obbligò gli ebrei ad emigrare e li dipinse (al pari della chiesa cattolica) come sporchi e trasandati, usurai e persino come praticanti lo schiavismo bianco.
La politica si manteneva ambigua perché utilizzava comunque l’antisemitismo in chiave di unità nazionale anche se invitava alla moderazione gli antisemiti della destra più estrema; pochi furono, nel dopoguerra, gli atti di violenza ed anche il razzismo manteneva ancora caratteristiche di ambiguità perché ancor troppo miscelato al consueto antisemitismo cattolico tradizionale.
In Europa i partiti di destra radicale erano nati sulla scia della rivoluzione e della controrivoluzione, ma le forze al potere più che loro espressione erano reazionarie, tuttavia anche da parte di queste vi fu, in alcuni casi, l’utilizzo dell’antisemitismo per fini politici, come nei casi di Nicolas Horthy in Ungheria e la dittatura militare in Polonia dopo il 1935 (con anche la Romania in una situazione irrisolta).
I reazionari al governo in questi paesi riuscirono, fino agli anni ’30, a tenere a freno le violenze antisemite delle destre radicali, cosa che non riuscì, invece, alle deboli democrazie parlamentari; la loro politica non mirava certamente alla tutela ebraica ma alla conservazione di legge e ordine che temevano potessero crollare sotto le spinte della destra: né Horthy in Ungheria, né il re in Romania, né Ignaz Seipel in Austria e nemmeno Piłsudski in Polonia erano razzisti; il loro fu sempre un antisemitismo cristiano e tradizionale: gli ebrei dovevano essere tenuti fuori del governo e a distanza, ma lasciati in pace.
Questa moderazione trovò, però, in seguito la contestazione delle Croci frecciate in Ungheria, della Guardia di ferro in Romania, dei nazisti in Austria e di altri movimenti similari.
Lo stesso fenomeno avvenne nell’Europa occidentale, anche qui il tradizionale nazionalismo conservatore mantenne maggior importanza della destra radicale, anche grazie al fatto che non erano paesi sconfitti, con contrasti tra nazionalità o vittime di rivoluzioni: se la Francia ebbe l’Action française e altri gruppuscoli insignificanti, l’Inghilterra non ebbe nulla di rilevante fino al 1932, quando Sir Oswald Mosley fondò l’Unione britannica dei fascisti.
La stessa Germania vide una destra radicale insignificante durante gli anni ’20, in paragone alle altre forze politiche presenti: Lega “volkisch” di difesa e offesa (“Deutschvölkische Schultz- und Trutzbund”) o partito dei lavoratori tedeschi poi trasformatosi in partito nazionalsocialista dei lavoratori tedeschi (nato da un’associazione di destra – la Thule Bund -, costituitasi durante la rivoluzione bavarese del 1918) erano realtà insignificanti, nate in reazione alla rivoluzione.
La «Lega “volkisch” di difesa e offesa», nata nel 1919, fu quella che ebbe qualche rilievo durante la repubblica di Weimar; raggiunse un consistente numero di iscritti, riesumò le accuse di omicidio rituale, ristampò il “Talmud-Jude” di Rohling e curò la distribuzione dei “Protocolli” tradotti in tedesco dalla «Società contro l’arroganza ebraica»; ebbene essa per prima coniugò teoria e prassi, iniziando ad usare in maniera estesa la violenza, assieme ad altri gruppi di estrema destra.
Questi ultimi, spesso guidati dai cosiddetti Corpi liberi, Freikorps, militari che avevano rifiutato la smobilitazione ed avevano deciso di applicare la legge in modo autonomo, eliminando i rivali politici e ricevendo in cambio condanne blande e poco rilevanti, avendo il sostegno deciso della magistratura della nuova repubblica, che, però, pur di destra, protesse comunque gli ebrei dalle accuse loro rivolte.
Gli omicidi politici, cosiddetti assassinii della «Fehme» (ordinati da tribunali segreti autonominatisi), venivano commessi da studenti delle scuole superiori, molti poco più che diciassettenni, un bacino d’utenza giovane, a differenza degli altri partiti che avevano sostenitori più anziani.
Questa organizzazione, la Lega “volkisch” di difesa e offesa, sostenne, ammantandole col velo della giustizia, queste esecuzioni sommarie: dai tentati assassinii di Philip Scheidemann, il socialdemocratico che aveva firmato il trattato di Versailles, e del pubblicista ebreo Maximilian Harden, agli omicidi del leader del partito del centro Matthias Erzberger, da essa ritenuto responsabile della capitolazione tedesca e di quello del ministro degli Esteri ebreo Walter Rathenau, dapprima istigato e poi realizzato nel 1922, evento che indusse la repubblica a dichiarare la Lega fuori legge (ma ne divenne erede e successore il partito nazionalsocialista dei lavoratori di Monaco).
Questa violenza fu un’ottima palestra per chi, successivamente, sarebbe stato protagonista dello sterminio degli ebrei; tra questi si distinsero Martin Bormann e Rudolf Höss entrambi assassini della «Fehme».
Il clima di violenza permase anche oltre la fine della guerra ma fu solo in Germania che questo occasionò l’ascesa della destra estrema: Lega agraria (“Bund der Landwirte”) e il sindacato degli impiegati del commercio si misero al servizio della Lega “volkisch” di difesa e offesa ed il putsch di Kapp del marzo 1920, seppur fallito, mise in luce proprio l’alleanza tra i conservatori, i Corpi liberi e il razzismo “volkisch”.
Il promotore del putsch, Wolfgang Kapp era un pan-germanista membro dell’aristocrazia prussiana, fautore di un colpo di stato improntato al conservatorismo tradizionale, tanto da impedire un “pogrom” contro gli ebrei di cui erano fautori alcuni appartenenti al Corpo libero di Ehrhardt.
La fedeltà dell’esercito alla Repubblica fece fallire il putsch, ma nell’esercito era entrato l’antisemitismo (ad esempio: nel 1920, un promemoria presentato da un reggimento al ministro-presidente bavarese chiedeva il massacro degli ebrei nel caso in cui gli alleati avessero di nuovo imposto il blocco alla Germania) e successivamente anche la delusione verso la repubblica, il che significò apertura alle idee della Lega “volkisch” di difesa e offesa: il razzismo, già penetrato tra i grossi proprietari terrieri e i conservatori, adesso sfondava anche nell’esercito e nella marina.
La fine della guerra aveva visto l’apoteosi dello stato-nazione; non solo la destra, ma anche la sinistra esibiva uno spirito nazionalista e patriottico; al contrario gli ebrei si trovarono a essere considerati un popolo straniero se non addirittura una nazione straniera col doppio conseguente pericolo di trovarsi come un popolo senza nazione e come un gruppo separato nella nazione e senza una propria base di potere.
Questa pericolosa posizione, però, non era percepita dagli ebrei dell’epoca perché ancora reggeva la vecchia tradizione liberale di tolleranza: in Europa occidentale e centrale i governi erano tolleranti e ostili alle discriminazioni ed anche i partiti della sinistra e del centro erano favorevoli all’assimilazione.
Partiti di questo tipo erano forti in Inghilterra e Francia (nei partiti inglesi come nei socialisti e radicali-socialisti francesi), ma anche nei liberali romeni e pure in Germania dove i socialdemocratici e i partiti del centro non erano ostili agli ebrei.
La sinistra radicale, i comunisti e gli scissionisti, che avevano avuto come sostenitori degli ebrei, nei tentativi di rivolta del dopoguerra, propugnavano la totale assimilazione ebraica ma con spirito ben diverso da quello liberale.
Karl Kautsky, esponente di spicco del socialismo prebellico, dopo la guerra fissò i termini della questione ebraica, riprendendo le opinioni, negative, di Marx, senza di fatto alcuna modifica; nella sua opera del 1914 “Razza e giudaismo” (“Rasse und Judentum”) riproduceva lo stereotipo ebraico, ovviamente negativo, ritenendo gli ebrei vittime di un attaccamento feticistico ai beni materiali, amore per il denaro e dedizione al commercio, insomma nulla di nuovo, ma propugnava anche la loro scomparsa che sarebbe avvenuta se essi avessero abbandonato la loro religione per aderire alla lotta proletaria per la liberazione dell’umanità: evidentemente pace e fratellanza universali ne sarebbero conseguite, senza più distinzioni di razza.
Una posizione rigettata dai socialdemocratici tedeschi, di origini liberali ma fatta propria dai partiti comunisti sia in Europa che in Unione Sovietica: gli ebrei non costituivano una nazionalità separata, ma un popolo ingannato dal suo stesso ambiente.
Per i comunisti da condannare era il capitale, a prescindere che fosse ariano od ebreo, tuttavia lo stereotipo antiebraico di Marx e di Kautsky attecchì in Germania dove la sinistra doveva competere con la destra radicale.
Ne fu esempio Karl Radek, inviato del Comintern in Germania: nel 1923 egli lodò il martire nazista Albert Leo Schlageter per l’opposizione all’occupazione francese della Ruhr e, contemporaneamente, auspicò la fine del «capitale circonciso e non circonciso»; messaggio identico venne ripreso nel 1930 da Heinz Neumann quando invitava nazisti e comunisti ad unirsi in lotta comune.
Nel contempo comitato centrale del partito comunista e stampa di sinistra eliminarono quasi tutte le presenze ebree al loro interno, secondo i dettami di Mosca dove Stalin stava trionfando su Trotski e dove l’antisemitismo stava riprendendo piede, anche se non connotato tanto di razzismo quanto mirato alla scomparsa dell’ebreo secondo le teorie marxiste, assorbito nel proletariato.
Per ironia, tragica, della sorte, al rifiuto del razzismo si accompagnò, però, l’accusa di razzismo rivolta agli stessi ebrei che sia in Russia che in Germania rioccuparono il posto dei cospiratori: da cospirazione ebraico-bolscevica, si passò a «ebraicosionista» o «ebraico-cosmopolita», quindi contro gli ideali egualitari dei comunisti e contro le nazioni tedesca e russa.
A ben vedere l’atteggiamento sovietico non era differente da quello ottocentesco: tutti i diritti al singolo ebreo, nessuno a loro in quanto razza o comunque gruppo, purtroppo il singolo ebreo era visto dal partito come un possibile infiltrato e quindi guardato con sospetto.
Dal 1918 in avanti, in definitiva, anche i più decisi oppositori del razzismo potevano comunque far proprio lo stereotipo ebraico ed il relativo mito della cospirazione.
Il razzismo più o meno lentamente si era intanto diffuso in tutta Europa, mettendo in difficoltà anche i socialdemocratici tedeschi ma questo era dovuto alla preponderanza dei temi politici imposti dalla destra cui centro e sinistra dovevano controbattere chiusi all’angolo da chi dominava la scena, cioè la destra razzista.
Fu la Germania che registrò questa vittoria anticipata delle destre: né Austria né Ungheria, seppur sconfitte, avevano vissuto le turbolenze tedesche, grazie a regimi conservatori che garantirono, almeno temporaneamente, stabilità, quella invece negata alla repubblica di Weimar che oltre alle turbolenze politiche vide anche la peggiore inflazione mai conosciuta da qualsiasi altra nazione europea.
Se nel 1930 persino alcuni socialdemocratici tedeschi sottolinearono l’importanza dell’«ariano Engels» rispetto all’«ebreo Marx», questa situazione della sinistra non fu tipica della sola Germania, anche se qui essa ebbe le sue conseguenze più funeste; anche l’Europa centro-orientale vide una sinistra mai del tutto favorevole agli ebrei, nonostante fosse accusata di essere «ebraica» dalla destra
Esempi: durante la rivoluzione ungherese del 1919, guidata dagli ebrei, furono istigati da settori della classe lavoratrice dei tumulti antiebraici e dei “pogrom”; non diversamente in Romania, dove i leader socialisti a volte fecero causa comune con gli antisemiti, non da meno la Polonia dove i buoni rapporti con gli ebrei vennero vanificati dall’isolamento in cui venne a trovarsi la Lega socialista ebraica a seguito della dittatura di Piłsudski.
La penetrazione a sinistra del razzismo non ebbe un notevole rilievo ma costituì comunque un ulteriore indebolimento della posizione ebraica in Europa, di cui gli stessi ebrei non seppero accorgersi.
La posizione degli assimilati ebrei dell’Europa centrale era, malgrado la loro relativa prosperità e sicurezza, non dissimile da quella dei loro spesso disprezzati confratelli dell’Europa orientale, così descritta sin dal 1882 da Leo Pisker: «per chi è vivo l’ebreo è un uomo morto; per gli indigeni è uno straniero e un vagabondo; per i possidenti un mendicante; per il povero e lo sfruttato un milionario; per i patrioti un uomo senza paese; per tutte le classi un rivale odiato».
Il razzismo approfittò di ogni occasione per infiltrarsi ed irrobustirsi: guerra e rivoluzione diedero aiuto a rendere pratico un pensiero teorico già elaborato ben prima; il «mistero» della razza dominò le coscienze, soprattutto in Austria e Germania, che pagarono i conti più salati della guerra.
In Germania, a Monaco, era nato durante la rivoluzione il partito dei lavoratori tedeschi come parte della Thule Bund, il cui nome già richiama un nord ariano; a Monaco Dietrich Eckart della Thule Bund, consigliere politico di Adolf Hitler, espose il suo antisemitismo razzista che addossava ogni male agli ebrei.
Sempre Monaco vide Alfred Rosenberg che, in stretto contatto con i Cento Neri esuli dalla Russia, cominciò a scrivere il suo “Mito del ventesimo secolo” (“Der Mythus des 20. Jahrhunderts”) sulla guerra mondiale come inizio di una rivoluzione mondiale.
Ecco che l’anima razziale stava risorgendo dal sangue dei martiri della guerra per unificare la razza: il razzismo avrebbe scalzato il cristianesimo divenendo l’unica «chiesa del popolo».
Qui in Germania si produssero, con successo editoriale, manuali popolari sul razzismo e si discusse delle caratteristiche dell’ariano e dell’ebreo: ad esempio nel 1930 L. Clauss in “L’anima nordica” (“Die
nordische Seele”) sosteneva che l’anima razziale prescindesse dall’aspetto esteriore ma che fosse la fonte di ogni creatività, al contrario Hans F. K. Günther, che nella “Dottrina razziale del popolo tedesco” (“Rassenkunde des deutschen Volks”), nel 1922 sosteneva gli stereotipi razziali del bell’ariano e del brutto ebreo.
Dibattito non nuovo, il razzismo aveva già tutto elaborato, ma significativo che volumi popolari come questi uscissero in Germani e non altrove; questa nazione stava sopravanzando ogni altra nella ormai prossima «guerra contro gli ebrei».