Il processo di banalizzazione

Continua col capitolo VII, intitolato Il processo di banalizzazione, la sintesi del libro di George L. Mosse.

La memoria pubblica della guerra fece proprie religione e natura, da sempre strumenti di edificazione dell’uomo, utilizzati per stemperare il ricordo pieno di orrore della guerra; un altro di questi strumenti di “addolcimento” della memoria di guerra fu la banalizzazione del conflitto: la guerra venne trasformata in qualcosa di ovvio e comune anziché qualcosa di solenne e terribile.

Seppure non fosse di aiuto a trascendere l’esperienza della guerra, la banalizzazione  la mascherò ed aiutò a tenerla sotto controllo, grazie alla consuetudine: tutte le cianfrusaglie che rimandavano alla guerra ne depotenziavano la carica paurosa e questo risultò comunque favorevole al mito dell’esperienza della guerra.

La banalizzazione, infatti, trasformò la guerra in qualcosa di famigliare, acquistabile e quindi sotto controllo, fosse esso un libro, un oggetto, una cartolina illustrata, un giocattolo o un viaggio turistico sui campi di battaglia.

Nonostante questa produzione fosse stata stigmatizzata come degradata, tuttavia si ebbe un’enorme produzione dei più disparati oggetti che avevano a che fare con la guerra: soldati in uniforme come calamai, croci di guerra riprodotte su cuscini, trincee sulle scatole di sigarette, granate, elmetti, nulla sfuggì ad un riutilizzo domestico, quotidiano; si ripropose il solito scontro tra sacro e profano i cui tentativi di differenziazione fallirono miseramente.

Anche il tempo libero venne permeato dell’esperienza di guerra: i giochi di società sfruttarono i temi bellici senza ritegno; in Francia, in particolare, la tradizione di giochi da tavolo sfruttò ogni tema possibile: dal gioco dell’oca ai giochi ad incastro che raffiguravano qualsiasi tema, dall’affondamento del Lusitania a Marianna armata che insegue il Kaiser.

Questi giochi, tuttavia, non ebbero l’importanza che assunsero, invece, le cartoline illustrate.

Esse nacquero nella Berlino del 1870, ebbero un successo immediato e si diffusero in tutta Europa: le prime erano degli acquerelli, poi vennero utilizzate acqueforti ed infine fotografie (che restarono rare fino alla fine del conflitto); furono un mezzo utilissimo per mantenere i contatti tra l’interno ed il fronte e quindi furono utilissime per trasmettere una certa immagine della guerra.

La maggior parte delle cartoline prebelliche evitava di rappresentare  immagini eccessivamente realistiche, cosa che facilitò la mistificazione dell’esperienza bellica perchè  suggeriva l’idea che la guerra fosse controllabile e ciò favorì non poco il mito.

Seppur non catalogabili per via dell’enorme numero di pezzi prodotti, sono accomunate da alcune caratteristiche: non ci sono rappresentazioni di morti o feriti com’erano nelle trincee, la morte rappresentata raramente, è sempre tranquilla e serena.

I feriti sono rappresentati di rado ma quando lo sono hanno sempre bendature, non compare sangue e sono amorevolmente accuditi da commilitoni o infermiere.

Quando sono rappresentati feriti mutilati, come nelle cartoline,  per la raccolta fondi pro mutilati promossa dal generale Ludendorff, questi sono comunque ritratti in attività serene, legate al mondo agreste, con assistenza di donne angeliche o dell’intero Volk.

I defunti sono trasfigurati grazie ai simboli cristiani e naturali: Gesù contempla la tomba di un guerriero oppure il soldato caduto riposa tra le braccia di Cristo (come nel monumento di Redipuglia); lo sfondo è sempre naturale o è fatto di campi di battaglia riordinati e tranquilli.

La natura rappresentata nelle cartoline rimanda all’idea di pace e tranquillità, non all’idea di dominio che invece fu utilizzata nella cinematografia postbellica tedesca o nella letteratura italiana degli alpini.

Anche le cartoline che riproducono il fronte, con la natura smembrata, lasciano in disparte i soldati, che restano tranquilli; quando sono rappresentate scene di vita in trincea, l’idea suggerita è sempre quella di felicità e tranquillità.

Analogo comportamento tennero vari scrittori che visitarono le trincee; la morte eroica in battaglia, trovò, invece, una raffigurazione sulle riviste illustrate.

Nelle cartoline non trovò spazio nemmeno la raffigurazione gloriosa della guerra: gli uomini sembrano perlopiù tranquilli uomini di famiglia; solo dopo che il conflitto si prolungò, cominciarono a comparire cartoline con soldati rappresentati seminudi ed in pose aggressive.

Durante la prima fase della guerra il soldato, quindi, venne rappresentato come il vicino di casa, che compie il suo dovere in modo tranquillo, senza eccitazioni; la compostezza della guerra è la caratteristica che emerge.

Particolare attenzione meritano le cartoline umoristiche, che trattando con leggerezza  gli orrori della guerra, permettevano un loro ridimensionamento, una messa sotto controllo; il grosso di questa produzione, comunque, sembra abbia preso di mira  le tribolazioni del fronte interno e non la realtà della guerra (come avvenne, invece, in Germania).

L’umorismo, per quanto presente, non contribuì al mito dell’esperienza di guerra, se non in piccola misura,  grazie al depotenziamento delle ansie; per il resto esso non doveva toccare l’esperienza bellica, né poteva intaccare il sacro culto del soldato caduto o l’entusiasmo dei volontari; esso fu ammesso, invece, come modo per spronare il fronte interno ed addirittura incoraggiato quando aveva di mira il nemico.

Nel caso in cui era preso di mira il nemico, cadeva ogni criterio di rispettabilità e la morte era rappresentata in tutto il suo orrore, con abbondanza di sangue.

Le cartoline hanno trattato tutti i temi sin qui considerati, dalla natura agli stereotipi di soldati e nemici: esse ebbero l’effetto banalizzante perché entrarono a far parte di tutti quegli oggetti conservati, collezionati che ogni famiglia, di ogni ceto, aveva in casa.

Ci fu, comunque, un elemento ulteriore che contribuì al mito dell’esperienza della guerra: la guerra dei bambini.

Molte cartoline rappresentarono bambini o vestiti da soldato o intenti a giocare, suggerendo immagini di innocenza e devozione alla patria.

Generalmente i bambini non erano armati di fucile ma di spada, che oltre a rimandare al medioevo e alla cavalleria rappresentava, almeno nella Germania guglielmina, la forza e la determinazione a combattere.

I bambini furono utilizzati anche per suggerire la continuità delle generazioni nella costanza dell’impegno di soldati (ad esempio: il padre tiene in braccio il neonato ed ha a fianco il bambino in età scolare vestito da soldato e armato di spada); naturalmente i bambini erano quasi sempre maschi ed identificati non con l’anno di nascita ma con quello di coscrizione.

L’utilizzo dei bambini in vista della guerra, in realtà, precedeva il 1914, risaliva sicuramente almeno a cavallo del secolo.

Al processo di banalizzazione contribuì fortemente anche  il mondo del giocattolo, con l’imitazione del mondo degli adulti che permetteva di abituarsi alla realtà bellica.

I giocattoli militari risalgono al Settecento; soldatini, pistole, spade, carri e numerosi oggetti della vita quotidiana vennero affiancati, nel decennio 1860-70, da ferrovie, motori elettrici e microscopi, mentre durante il conflitto bellico vennero riprodotte le armi in uso, gli autoblindo, le mine e le attrezzature per  la mimetizzazione (che imitarono la nuova guerra meccanizzata) e addirittura i carri armati (utilizzati nel settembre 1916 e già disponibili in Francia nel 1917).

I giocattoli più popolari furono i soldatini di stagno, che piacevano anche agli adulti e che, grazie alla loro accuratezza, permettevano di ricostruire in maniera molto veridica, battaglie di ogni tipo.

Interessante la storia di questo giocattolo: i soldatini probabilmente comparvero per la prima volta alla corte di Luigi XIV, importati dalla Germania che detenne il monopolio della produzione fino al tardo Ottocento; dalla seconda metà del Settecento a fine della seconda guerra mondiale i soldatini furono il giocattolo guerresco più diffuso.

Ben prima della Grande Guerra c’era chi li considerava uno strumento educativo delle arti militari (in Francia, nel 1902, erano chiamati gli addestratori delle future guerre) ed erano considerati incoraggiatori della fedeltà alla bandiera.

La letteratura che trattava dei soldatini di stagno li considerava un’educazione alla guerra ed, in effetti, i ragazzi potevano ricostruire tutte le battaglie reali accadute nella storia, grazie alla fedele riproduzione delle più disparate uniformi, antiche e moderne.

Il realismo dei soldatini arrivò ad implicare che  i cannoni potessero sparare granate di gomma, piselli o palle di legno, ma tutto circonfuso di un certo alone romantico e cavalleresco, utile a evitare liti tra i bambini e insegnargli cose utili per il futuro (guerresco).

Il bambino in guerra rappresentava perfettamente l’ideale di fedeltà alla patria ed al sovrano, tanto apprezzato da chi la guerra la dirigeva; unendovi cavalleria e romanticismo, si mascherava la realtà della guerra, trasfigurata in un gioco divertente.

La guerra come gioco e come avventura influì molto sul processo di banalizzazione; in Inghilterra ai ragazzi veniva insegnato che “giocare per la propria scuola assomiglia molto al combattere per l’impero”.

Oltre ai soldati i ragazzi praticavano anche veri e propri giochi di guerra, che mettevano alla prova virtù fisiche e mentali, lasciando molto spazio all’iniziativa individuale;  a modello furono prese le manovre militari in tempo di pace, come esempio di gioco militarmente organizzato (ad esempio conquista di postazioni o scontri tra due fazioni). Questi giochi furono popolarissimi nella Germania postbellica, mentre non furono in voga durante il conflitto.

Oltre ai giochi militari ce n’erano numerosi di paramilitari come guardie e ladri, cavalieri contro borghesi e simili che univano al gioco lo spirito militare.

La letteratura per ragazzi ed il teatro videro molti esempi di ragazzi combattenti; un esempio estremo lo si ha in Das liebes Gottes kleine soldaten, del 1916, di un’anonima suora cattolica tedesca, di cui non sono riuscito a trovare nulla in rete, con molto disappunto.

La banalizzazione trasferiva  alcuni aspetti della guerra nella vita quotidiana, togliendo quindi all’evento bellico il carattere di straordinarietà e sacralità, aiutando così la gente ad affrontarla; lo stesso effetto ottenuto per vie diverse anche dalla glorificazione.

I soldatini di stagno ebbero, dopo la guerra, un differente destino: calarono sensibilmente in Inghilterra mentre rimasero molto presenti in Germania ove vennero utilizzati dai nazisti; la seconda guerra mondiale segnò una enorme produzione, in Germania, anche se stavolta vennero rappresentati anche feriti, mutilati e morti, una rappresentazione più onesta dell’evento bellico, che distinse nettamente i due conflitti mondiali.

Passiamo ora a cinema e teatro.

Il teatro trattava la guerra con una certa leggerezza mentre il cinema, nonostante  qualche  tentativo  di serietà, fu considerato soltanto uno svago che, anzi il governo tedesco, allo scoppio delle ostilità, tentò di vietare considerandolo inadatto alla serietà del momento; non portò a compimento il divieto perché venne convinto che durante la guerra fosse opportuno somministrare alla popolazione panem et circenses; solo nel 1917 anche la filmografia fu utilizzata ai fini della guerra totale, mentre Francia e Inghilterra furono molto più sollecite nello sfruttamento della nuova arte a fini bellici.

La drammaturgia tedesca, ad imitazione di quella francese che aveva una tradizione consolidata, sfruttava il tema della guerra come motivo farsesco anche se non era mai messa in discussione l’autorità militare, anzi il clima era marziale e gli ufficiali, quasi sempre, vincevano le disfide coi borghesi; tutto contribuiva al processo di banalizzazione della guerra.

La popolarità delle commedie di stampo militare rimase alta sia durante la guerra che anche nel dopoguerra, anche grazie alle associazioni patriottiche che le finanziavano per il proprio divertimento: questi spettacoli univano l’intrattenimento (e gli incassi relativi) alla possibilità di ridere degli ufficiali, senza tuttavia criticarli realmente o metterne in dubbio l’autorità, in modo da salvaguardare l’aspetto ludico ed il patriottismo. Questo fu un tipico modo di banalizzazione  della guerra che favorì l’insorgere del mito dell’esperienza della guerra.

La guerra fu rappresentata in scena anche attraverso i tableaux vivants, che avevano intenzioni di maggior serietà e che conobbero grande successo per tutto l’Ottocento e durante la Grande Guerra.

I primi a mettere in scena la guerra furono i francesi (che in precedenza avevano messo in scena, nel 1868, la battaglia di Marengo) che durante la Grande Guerra misero in scena la battaglia di Verdun.

Ma il luogo migliore per rappresentazioni belliche era il circo ed in effetti anche questo fu utilizzato per spettacolari rappresentazioni, così che la guerra divenne spettacolo, in fondo non troppo diverso da tante altre forme di spettacolo.

Oltre a queste tipologie di spettacoli anche la drammaturgia tradizionale diede il suo contributo al patriottismo, com’era peraltro consuetudine da tempo e senza particolari novità, salvo forse i tableaux vivants e l’aumento di sentimentalismo.

Sentimentalismo e luoghi comuni contribuirono, essi pure, alla banalizzazione in quanto suggerivano della guerra l’aspetto famigliare mentre gli spettacoli ne davano quello eccitante.

Il cinema era più popolare del teatro ed America ed Inghilterra produsse molte opere con caratteri sciovinisti; la Francia più lenta nello sfruttamento di questa nuova possibilità mentre la Germania rimase al palo: il risultato finale, comune comunque a tutti fu una presentazione della guerra come un melodramma, una vicenda romantica o d’avventura; i film tedeschi, ad esempio, all’inizio cucirono una cornice militare a vecchi melodrammi o importarono dal teatro le farse militaresche.

Sin dall’inizio del conflitto vi fu anche la tendenza a produrre pellicole di maggior serietà e si arrivò anche a trattare, sebbene in termini romanzeschi, le paure dei soldati, la tentazione del realismo accompagnò sempre gli addetti, soprattutto nella preparazione dei cinegiornali che furono l’unico contributo originale della cinematografia alla guerra.

In Germania ci furono le Messter Woche (settimana Messter), principale cinegiornale tedesco che proiettò, al massimo, alcuni soldati tedeschi feriti, ma già in via di guarigione. Era comunque impossibile riuscire ad effettuare riprese in prima linea, sia per i divieti delle gerarchie militari, sia per le difficoltà dei terreni, che, ancora, lo spostamento dei materiali necessari; il materiale prodotto fu quasi esclusivamente ottenuto da riprese delle manovre nelle retrovie.

Lo scopo dei cineasti fu, comunque, quello di edificazione del pubblico ed incoraggiamento dello spirito patriottico.

Durante la seconda guerra mondiale i cinegiornali Messter furono criticati perché ritraevano troppo il fronte interno: i nazisti ritenevano che il realismo avrebbe rafforzato la determinazione dei civili e incentivò le riprese delle scene di battaglia sui campi: chiaro indice della diversa considerazione dei futuri mass media che si ebbe nei due conflitti mondiali.

L’operazione compiuta da Messter, la messa in scena di una guerra accettabile fingendo le riprese in prima linea, non rimase isolata: gli inglesi fecero altrettanto, essi si permisero maggiore realismo ma finalizzato a rappresentare la morte con allegria, secondo la logica suggerita da Lloyd George di “un’epica di abnegazione e di coraggio”.

I cinegiornali, dunque, non sfuggirono alla logica di mascherare la guerra, rappresentando sia l’aspetto attraente sia quello orrorifico, ma anche quando rappresentarono l’orrore lo subordinarono ad altri valori in modo da renderlo accettabile: scene autentiche di guerra non comparvero mai durante il conflitto.

La possibilità di manipolare le immagini rese anche la fotografia simile alle altre arti, offrendo la possibilità di crearsi una guerra a proprio piacimento

L’uso di costruire scene di guerra per il fotografo risale probabilmente alla guerra civile americana quando venne manipolata la famosa foto del tiratore di Gettysburg: venne preso il corpo di un giovane, spostato dalla zona in cui era caduto, posto accanto ad un muro con fucile a fianco e zaino sotto il capo.

Gettysburg

Durante la Grande Guerra l’atteggiamento fu del tutto simile, salvo il fatto che tralasciarono di riprendere feriti gravi e deceduti: le riviste illustrate mostravano soldati alla carica ma le scene di battaglia erano normalmente disegnate o dipinte.

L’esercito francese aveva una Section Photographique  che pubblicava e vendeva album di foto di singole battaglie, ma mai erano riprese le vere scene di battaglia, i pochi cadaveri ritratti erano esclusivamente di soldati tedeschi e comunque poco nitidi.

Di ottima fattura erano le immagini di prigionieri tedeschi, mentre le presunte atrocità imputabili a questi ultimi erano comunque scene costruite; gli inglesi, al contrario, non rappresentarono scene con morti e feriti gravi. Anche il questo caso il contrasto con la seconda guerra mondiale è evidente.

Le fotografie scattate dai soldati per loro stesi o per le famiglie furono decisamente più realistiche e, sebbene, fossero state utilizzate, in alcuni casi, in film antibellicisti nel dopoguerra, l’immagine pubblica della guerra rimase quella dominante, fornita dai media che alimentava e nel contempo era alimentata dal mito dell’esperienza della guerra.

Nel primo dopoguerra la produzione di film bellici fu molto bassa in Francia ed Inghilterra; ci fu una ripresa  nella metà degli anni Venti a causa del rilancio del genere da parte di Hollywood, mentre in Francia non ci fu ripresa fino al 1928.

La Germania, invece, non produsse film di guerra ma di temi che della guerra erano il surrogato, come quelli di montagna o che raccontavano esperienze di volo.

L’alpinismo come lo sport, considerato prova di forza e di irrobustimento fisico, erano i sostituti della guerra e trasmettevano il messaggio che c’era un compito da svolgere: la ricostruzione di una nazione, nuovamente competitiva, virile, vigorosa, moralmente integra.

I surrogati della guerra, pur carichi di simbologie che afferivano al mito, non banalizzavano la guerra ma tutto cospirava, col passare del tempo, perché il sacro della memoria bellica si confondesse col profano delle varie banalizzazioni.

Questo conflitto sacro profano fu particolarmente percepibile nelle escursioni ai campi di battaglia ed ai cimiteri di recente creazione, nel periodo postbellico, dove il turista ed il pellegrino si trovarono fianco a fianco.

Furono organizzati viaggi per le vedove, gli orfani e i parenti, ed in alcuni stati, come l’Inghilterra ci furono strutture altamente organizzate e specializzate; questi pellegrinaggi sovvenzionati erano del tutto spartani, privi di agi; si aggiunsero, inoltre, i reduci che volevano rivedere i luoghi delle battaglie, tutti uniti da uno spirito di pellegrinaggio, al quale si affiancò, tuttavia anche il turismo organizzato ed il redditizio mercato dei souvenir.

Gli oggetti ricordo banalizzavano comunque la realtà cui rinviavano anche se erano denominati reliquie e non souvenir.

Ci furono ovunque tentativi di separare i turisti dai pellegrini, anche se nella pratica la cosa non era propriamente semplice: il turista viaggiava per diletto, il pellegrino compiva un atto di fede anche se per lungo tempo il pellegrinaggio fu l’unico modo di viaggiare.

Il turismo di massa, fu comunque antecedente la guerra ma il conflitto tra turista e pellegrino fu particolarmente aspro dopo la fine del conflitto anche perché lo sviluppo  tecnologico dei trasporti permetteva uno spostamento di masse prima impensabile; i turisti, inoltre, chiedevano agi quando non lusso, con tutto il mercato conseguente.

Nonostante le tensioni, cimiteri e campi di battaglia rimasero meta di pellegrinaggio fino alla seconda guerra mondiale ed il culto del soldato caduto non perse smalto, anzi fu incorporato nella religione civica del nazionalismo che si andava via via rafforzando, invece di scemare.

Anche in questo operò potentemente la banalizzazione: i campi di battaglia trasformai in lindi campi, i villaggi restaurati, il senso di pace, armonia e serenità che infondevano i cimiteri avevano contribuito a  togliere di molto il senso di orrore della guerra.

Il processo di banalizzazione favorì il mito dell’esperienza della guerra: la realtà bellica fu trascesa attraverso la sua mondanizzazione  e riduzione ad oggetti usati o ammirati nella quotidianità, di cui si impadronivano coloro che erano interessati a soddisfare le proprie curiosità riguardo ai combattimenti.

Questa banalizzazione non placava le menti ma dava l’impressione di poter dominare gli eventi.

La banalizzazione, facendo entrare la guerra nella vita quotidiana, fu indispensabile al mito anche se il mito, fondamento di una religione civica, era all’opposto della banalizzazione.

La presenza della guerra nella vita quotidiana indusse anche una certa brutalizzazione della vita politica; ci fu chi, oltre ad alpinismo, ginnastica e sport, considerò la politica come un surrogato della guerra, da continuare anche in tempo di pace.

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