Narciso e il vitello d’oro

compianto Oggi, erano secoli, sono andato a Messa alle 10, complice il servizio serale di ieri, col ritorno a casa alle 2 della notte.

Il prete, che ovviamente, non conosco, mi sembra leggermente pesante; la Messa, per i bambini, ne vedeva 10 in tutto, abbastanza deprimente per una parrocchia tenuta dai salesiani, anche se non è colpa loro.

La liturgia prevedeva la parabola del figliol prodigo, ma la versione breve l’ha cancellata in favore della dramma perduta (adesso si usa moneta) e della pecorella smarrita.

Mi ha interessato di più la prima lettura, dal libro dell’Esodo, al capitolo 32, che sono andato a rileggermi.

Ci ho trovato un Mosè assente, da un certo tempo ed il popolo (bue) ovvero la massa, senza capo non sa che fare … quindi ecco la soluzione, religiosa e politicamente corretta (da non urtare la sensibilità dei popoli vicini, idolatri): “Facci un dio che cammini alla nostra testa, perché a quel Mosè, l’uomo che ci ha fatti uscire dal paese d’Egitto, non sappiamo che cosa sia accaduto”.

Aronne, fratello e collaboratore di Mosè, non ci pensa un momento ed aderisce alla richiesta, probabilmente più che collaboratore era un esecutore, un intermediario di alto livello, ma non una testa pensante, oppure, più intelligentemente, sa bene che è inutile ragionare e pericoloso opporsi, così salva pellaccia e quieto vivere, obbedisce alla massa.

E vitello d’oro fu.

Chissà mai poi perchè un vitello e non un bel toro, simbolo notorio di potenza oppure, chissà, preveggente com’è, ha pensato che in un vitello la differenza sessuale ancora non c’ha messo lo zampino (si discute in questi giorni di sostituire i vecchi padre e madre con genitore 1 e genitore 2, insomma più vitello per tutti).

Nel frattempo il Signore dialoga con Mosè, minaccia fuoco e fiamme su Israele mentre al patriarca promette un radioso futuro: «Ora lascia che la mia ira si accenda contro di loro e li divori. Di te invece farò una grande nazione».

Inspiegabilmente Mosè rifiuta l’offerta e si mette ad intercedere per quell’accozzaglia di impenitenti idolatri, ottenendone la salvezza.

Mi sono immaginato al suo posto: di fronte al Signore, a quelle parole terribili e lusinghiere come avrei reagito io?

Non credo avrei interloquito, forse balbettato, questo sì, ma non avrei insistito con la determinazione di Mosè, che direi quasi è arrogante: “Mosè ritornò dal Signore e disse: “Questo popolo ha commesso un grande peccato: si sono fatti un dio d’oro.  Ma ora, se tu perdonassi il loro peccato… E se no, cancellami dal tuo libro che hai scritto!”.

Ma prima di arrivare a tanto, il padre di Israele ci prova anche stuzzicando l’orgoglio del suo interlocutore, quasi a suggerirgli che, insomma, che razza di dio sarebbe se gli egiziani potrebbero sbeffeggiarlo, vedendo la fine che ha fatto fare a Israele, e poi, suvvia, sembra dire, dopo tutta la fatica di averli fatti uscire dalla cattività.

E gli ricorda il vincolo giuridico, cui il Signore stesso si è impegnato, con Abramo, Isacco, Giacobbe.

Mosè rinuncia alla propria discendenza in favore di quella del popolo, sembra non essere ambizioso ma forse lo fa perchè conosce bene l’uomo e sa che non c’è progetto di “uomo nuovo” che tenga, nemmeno se esce dai suoi santi lombi.

Sa bene che non è l’astrazione di una teorica rifondazione dell’uomo che lo preserverà dal peccato: il diluvio universale sembra essere stato un’immane, inutile carneficina; nulla del male che vi era prima è stato spazzato via realmente.

La soluzione, per quanto ancora nel compromesso, sta nel rapporto col Signore, non nei vincoli di sangue ed infatti tornato nell’accampamento, non chiama a raccolta il suo clan, ma: “Chi sta con il Signore, venga da me!”.

La distinzione, anche sanguinosa, sta nel rapporto, non nel legame carnale.

Mosè ha il coraggio di parlare col suo Signore, di fargli presente patti, inadempienze, promesse, gli avanza delle richieste e la cosa sconcertante è che il Signore mica lo punisce, anzi.

Ripenso a me, al mio rapporto col Signore che non tratto mai da Signore ma da vitello d’oro se non peggio. Mi viene da scusarmi pensando che lui era Mosè, il che mica è falso, tuttavia quell’uomo è stato un omicida, un uomo crudele nelle punizioni: «”Passate e ripassate nell’accampamento da una porta all’altra: uccida ognuno il proprio fratello, ognuno il proprio amico, ognuno il proprio parente”. I figli di Levi agirono secondo il comando di Mosè e in quel giorno perirono circa tremila uomini del popolo».

Non era un personaggio da santino, Mosè, tutto agiografia e pensiero politicamente corretto.

Sentendo parlare, ogni tanto del nuovo Papa, sento dire di lui che è uno del popolo, “uno come noi”: credo che una possibile buona idea potrebbe essere quella contraria; sarebbe assai meglio che ciascuno pensasse di diventare come il Papa!

Tutti ce l’abbiamo coi politici (non che non se lo meritino) ma non è che, con questo, cerchiamo il vitello d’oro da mettere alla testa del paese?

Guarda caso, quando il popolo, anzi la massa, ha il vitello in testa, si confonde con le altre masse (i popoli vicini), prende delle gran botte, si perde nel deserto, insomma non combina niente di buono.

Può gozzovigliare, lamentarsi, insultare, anche suicidarsi, ma non farà un passo che lo distanzi dalla pozza d’acqua nella quale si contempla.

In fondo il vitello d’oro è un prodotto di Narciso.

Vitello d’oro regnat anzi imperat.

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